Attenti alle trivelle, hanno già fatto cadere un governo. Era stato proprio il referendum sulle trivelle, il 17 aprile 2016, a segnare l’inizio della fine di Matteo Renzi. E lo sparo d’inizio per la corsa a palazzo dei 5 stelle, che avevano abbracciato la battaglia.

Per Renzi quel giorno era suonata la campana. Ma la caciarona euforia del giglio magico ne aveva coperto il suono. Anzi, dalla greffa dei suoi amici, consiglieri e bulletti da social, uno dei più disinibiti, Ernesto Carbone – oggi ex deputato, l’avvocato consentino che lo aveva accompagnato nel cortile di Palazzo Chigi sgommando in Smart – twittò un #ciaone di sfottò verso gli sconfitti che fece il giro della rete e in breve si trasformò in un clamoroso autogol.

Torniamo al referendum. Il quesito era: «Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?». Per la prima volta era stato richiesto dalle regioni – Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto – otto delle quali governate dal centro-sinistra. L’esecutivo aveva legiferato per evitare le urne senza riuscirci e alla fine Renzi aveva invitato all’astensione. Alcune tv depistarono fino alla fine, raccontando che si sarebbe votato solo nelle regioni interessate alle trivelle.

Quella domenica votò il 31,19%, 13.334.764 elettori, l’85% dei quali votò sì. Ma il quorum non fu centrato e Renzi esultò sgangheratamente per la vittoria. Eppure quei 13 milioni e passa di elettori ambientalisti – la maggior parte M5S, ma anche sinistra Pd con uno scatenatissimo Emiliano, sinistre radicali, Lega e destre – avevano dimostrato di non volere buchi in mare e di essere pronti a votare contro il governo. Era, e fu, un’ottima base di partenza per il successivo, cruciale, referendum costituzione che arrivò a fine anno.