Difficile immaginare due scrittori più diversi di Howard Phillips Lovecraft e Stanisław Lem. Il primo vissuto nella prima metà del Novecento, negli Stati Uniti (che non ha mai lasciato), bianco anglosassone protestante, animato da pregiudizi nei confronti degli immigrati che affluivano nel suo paese in quegli anni, in primis gli ebrei dall’Europa orientale; scrittore visionario, ha messo in scena mondi e entità da incubo in storie angosciose dove incombe continuamente un altro mondo dalle geometrie non euclidee, abitato da creature semidivine il cui aspetto è così mostruoso da fare impazzire noi umani.

Lem invece è polacco di discendenza ebraica, anche se non credente; emigrato a Berlino e assolutamente cosmopolita, ha scritto nella seconda metà del secolo, armato di un’intelligenza lucida e tagliente, che giunge al paradosso e al limite del conoscibile attraverso ragionamenti logici e ben fondati sulla scienza, grazie anche alla sua formazione, come medico prima e poi come studioso della cibernetica; è un narratore algido che non perde mai il controllo, autore di una fantascienza visionaria sì, ma ben diversa dagli incubi cupi del suo collega americano.

Sembrerebbe che questi due scrittori siano accomunati soltanto dall’iniziale del cognome, eppure qualcosa li lega: un tema caratteristico dell’immaginario fantascientifico si ritrova in misura maggiore o minore sia in Lem (si pensi a romanzi come Solaris o a L’invincibile) che in Lovecraft (i cui «grandi antichi» sono anche e soprattutto esseri radicalmente alieni, provenienti da un altro spazio-tempo). E se il territorio della fantascienza è connotato da una serie di figure ricorrenti (i robot, gli androidi, il viaggio nel tempo, l’astronave, e così via) e da temi condivisi (il sublime tecnologico, la visione utopica o distopica, la catastrofe, l’incontro con l’alterità assoluta, e altri ancora), è proprio uno di quei temi a interessare Lem, e ossessionare Lovecraft: quello della fine dell’antropocentrismo.

Certamente, la perdita di centralità dell’uomo nel cosmo ha inizio con Copernico e Keplero, ma è alla fine dell’Ottocento, con La guerra dei mondi di Herbert George Wells, a venire incarnata narrativamente: pochi decenni dopo le teorie di Darwin, quando viene sopraffatto da invasori marziani (e salvato in extremis dai batteri) il genere umano scopre brutalmente di non essere affatto la specie più evoluta. Lovecraft, allarmato per la perdita di centralità della sua regione – il New England anglosassone e calvinista – nei sempre più multietnici Stati Uniti, era parallelamente angosciato perché consapevole di come «le comuni leggi e interessi dell’umanità non abbiano validità e significato nel vasto cosmo preso nel suo insieme».

E aggiunge: «per me non c’è null’altro che puerilità in un racconto in cui la forma umana– e le condizioni e le passioni e gli standard locali umani – vengono descritti come fossero autoctoni per altri mondi o altri universi». Di qui la visione tetra di un mondo umano concepito come precaria parentesi tra la dominazione dei grandi antichi che l’ha preceduto e lo seguirà.

Nei racconti di Lovecraft, dunque, la ragione umana viene ripetutamente e inesorabilmente messa in crisi dall’incontro con una realtà totalmente altra, tanto diversa da essere mostruosa. Tutt’altro che soggetti privilegiati della conoscenza, i suoi personaggi si trovano traumaticamente incapaci di capire, addirittura di figurarsi, gli antichissimi alieni, e per questo sprofondano nella follia.

Anche Lem intraprende una serrata critica dell’antropocentrismo: lo fa in modo più logico, più distaccato, più lucido, ma non meno radicale. In Solaris immagina una creatura talmente diversa dall’Homo sapiens sapiens da essere praticamente incomprensibile. L’oceano senziente, che copre il pianeta (e dà il titolo al romanzo) è oggetto di un’intera scienza, la solaristica, votata alla sconfitta. Nel romanzo L’invincibile immagina che su un pianeta extrasolare risieda una forma di vita non organica, evolutasi da macchine, con la quale non si può trattare né scendere a patti, come scopre l’equipaggio di un’astronave che vi si è recata in cerca dei superstiti di una precedente spedizione.

E in L’indagine, curioso ibrido di giallo, fantascienza e soprannaturale, ci racconta di un ispettore di polizia alle prese con cadaveri che tornano momentaneamente in vita ore dopo la morte, un fenomeno destinato a restare inspiegato fino alla fine. Anche qui ci muoviamo in un universo dove, come scrive Lovecraft, «uno deve dimenticare che cose come la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio, e tutti questi attributi locali di una razza trascurabile e temporanea chiamata umanità, abbiano qualsivoglia esistenza». Nell’universo di Lem ci sono più cose in cielo e in terra di quante la nostra filosofia e la nostra scienza abbiano mai contemplato e, se c’è una misura, essa non è certo quella del fragile corpo umano, come proponeva Leonardo da Vinci prima dello sconvolgimento cosmologico copernicano e kepleriano.

Gli esiti di questa consapevolezza sono ovviamente molto diversi nei due autori: per Lovecraft l’universo troppo grande e troppo antico per noi umani è un luogo di terrore e di angoscia, ciò che porta la sua narrativa, per quanto radicata saldamente nell’immaginario fantascientifico, a sconfinare sempre nel territorio dell’horror. In Lem prevalgono invece il distacco, una tagliente ironia e quasi una stoica rassegnazione di fronte all’incapacità della mente umana di comprendere del tutto il cosmo in cui si trova a muoversi. Forse questa diversità nell’atteggiamento dei due scrittori nasce dalla distanza dei loro vissuti: da una parte il wasp che vede dissolversi la sua America, dall’altra l’ebreo miracolosamente scampato alla strage. Eppure questa strana coppia trova nella fantascienza uno spazio di incontro e di confronto: prova evidente dell’ampiezza e della complessità di questo territorio dell’immaginario.