Nella categoria dei mestieri ingrati, quello del traduttore letterario è di sicuro ai primi posti. Come sanno fin troppo bene coloro che lo praticano, se il risultato dei loro sforzi è buono, il merito andrà tutto a chi ha messo il suo nome sulla copertina del libro, mentre al traduttore – nella maggior parte dei casi alla traduttrice – sarà al massimo riservato uno stereotipato contentino: «traduzione efficace, scorrevole, blabla». Ma guai se il malcapitato o la malcapitata avrà commesso qualche errore, perché in questo caso a lui o a lei i recensori non risparmieranno critiche più o meno severe. (Per non parlare di quelli, come Dwight Garner in una recente recensione sul New York Times, che arrivano a rimproverare i traduttori per non avere costretto gli autori a migliorare il loro stile, «facendo prevalere la fedeltà sulla generosità e la sensibilità»).

Triste destino, che tuttavia non scoraggia il numero sempre maggiore di giovani decisi ad abbracciare la professione, come testimonia l’affollamento delle ormai numerose scuole di traduzione sparse nel mondo. A questi giovani, e in generale ai traduttori di ogni età, va raccomandata la lettura di un libro, La impostora, uscito nei mesi scorsi in Spagna per la casa editrice Páginas de Espuma e vincitore del Premio Malaga per la Saggistica.

L’autrice, la madrilena Nuria Barrios, ha al suo attivo diverse raccolte di poesia e alcuni romanzi, ma il suo quarto d’ora di notorietà, perlomeno in Italia, lo ha avuto come traduttrice dei versi di Amanda Gorman, la giovanissima «poetessa» statunitense diventata famosa per la sua presenza – sottolineata da uno squillante cappottino giallo – alla cerimonia di investitura del presidente Biden. Donna sì, ma né giovane (ha una sessantina d’anni) né nera, Barrios ha dichiarato allora su El País di non volere un mondo dove «solo i bianchi possono tradurre i bianchi, solo le donne possono tradurre le donne, solo le persone trans possono tradurre le persone trans», denunciando il rischio di «una nuova letale censura».

E su questo tema Barrios torna rispondendo alle domande di Esther Peñas che al libro – «una riflessione sui molteplici aspetti di una professione che si muove tra le pastoie della precisione e i rapidi voli della creatività, ma sempre ispirata dalla fedeltà all’originale» – ha dedicato una bella intervista pubblicata in questi giorni sulla rivista online Contexto: «Come indica il nome stesso – dice Barrios – la correttezza politica si riferisce al campo della politica o, in senso più ampio, al campo della nostra convivenza come cittadini. Ma l’arte si genera in una sfera diversa, dove l’immaginazione è fondamentale e la correttezza è un criterio estraneo. L’arte parla della natura umana, non dell’animale umano addomesticato che la società richiede per evitare i conflitti».

Quanto al suo lavoro di traduttrice, Barrios ne parla con passione («ci sono momenti in cui il passaggio da una lingua all’altra scorre leggero come se una delle lingue di fuoco che scesero sugli apostoli quando Dio diede loro il dono delle lingue fosse apparsa sopra la testa del traduttore»), ma senza sentimentalismi. A Peñas che le chiede se si possano tradurre solo testi verso i quali si prova sintonia, risponde: «La traduzione è una professione, non un hobby. Come per qualsiasi altro lavoro, guadagnarsi da vivere non è facile. A volte ci sono originali che piacciono e altre volte no. Ma la sintonia con il testo non dovrebbe mai essere il criterio per una buona traduzione».

Che sia un modo per riaffermare indirettamente la sua distanza dai brutti testi di Amanda Gorman?