Di recente è uscita la biografia ufficiale dei Colle der Fomento, gruppo baluardo del rap underground italiano. Scritta dal giornalista Fabio Piccolino con Danno e Masito, si intitola Colle der Fomento-Solo amore (Minimum Fax) e ripercorre la storia dei due rapper, un percorso che ha conservato un carattere indipendente anche nel periodo in cui il gruppo aveva rapporti con le case discografiche. Parlando del loro album di esordio, Odio pieno (1996), a un certo punto Danno dice: «Seguire il rap in quegli anni significava sentirsi alieno e automaticamente in guerra con chi ti considerava alieno. Era una questione di contrapposizione: voi ci bombardate con Beverly Hills, Non è la Rai e le musichette pop e io vi dichiaro guerra: non mi interessa stare dove state voi, non voglio entrare nelle vostre discoteche con la selezione all’ingresso, non voglio essere giudicato solo dall’aspetto». Questa attitudine praticamente equivaleva a un’ideologia e, negli anni Novanta, era molto diffusa non solo tra gli artisti ma anche tra il pubblico: il conflitto tra la cultura pop mainstream e le forme underground, in particolare le sottoculture urbane, era netto. Con il rap il concetto si esasperava: un linguaggio così diretto, con dei tratti indecifrabili come i riferimenti alla cultura afroamericana e il background da quartieri disagiati e multietnici delle grandi metropoli, in Italia, all’epoca, ai più risultava davvero alieno. Inoltre, come noto, qui il rap, quando ha iniziato a diffondersi con una certa efficacia tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, ha trovato casa prima di tutto nei centri sociali, spazi antagonisti e alternativi all’intrattenimento di massa che esaltavano questo carattere di estraneità e di rigetto del conformismo.

2016, BOOM DELLA TRAP
Oggi anche in Italia il rap è diventato mainstream, si è affermato grazie al flirt con il pop e si mantiene stabilmente nei posti più alti della classifica, spesso dominandola, quantomeno dal 2016, anno del boom della trap. Così, nel piccolo mercato musicale italiano, molti ragazzi e sempre più ragazze, soprattutto se provenienti da situazioni di disagio, stanno praticando il rap non solo per passione ma anche per ottenere una svolta economica. Questa tendenza dei rapper a sposare, senza neanche porsi la questione, una vena che negli anni Novanta era per lo più derisa, disprezzata e liquidata come «commerciale», in parte è figlia di cambiamenti sociali sostanziali rispetto alla fine del secolo precedente e di riflesso sta soffocando quella parte di scena non allineata ai suoni dominanti. I Colle der Fomento sono dei veterani ormai, si sono formati negli anni Novanta e restano una delle grandi e rilevanti eccezioni che resistono a questo cambiamento epocale. Negli Stati Uniti, però, la realtà è differente, anche perché il rap lì è esploso prima che altrove, si è stabilizzato nei posti più alti delle classifiche all’incirca da metà degli anni Novanta e dal 2017 vende più di qualsiasi altro genere, più del rock.

UNA SUPERSTAR
Oltreoceano il successo del genere è tale che un rapper colto, conscious e con uno stile originale come Kendrick Lamar è diventato una superstar, ha ottenuto un riconoscimento di prestigio come il premio Pulitzer per la musica (primo musicista non proveniente da classica e jazz a vincerlo) e sta conquistando il resto del mondo registrando sold out ai concerti ovunque da almeno cinque anni. Alla luce di exploit simili e delle collaborazioni continue tra rapper mainstream e rapper indipendenti (tra l’altro sempre più corteggiati da brand che sperano di trovare un nuovo Lamar), a fine 2021 un dettagliato approfondimento sul magazine statunitense Complex analizzava come e quanto è cambiato il rap underground sottolineando soprattutto l’effetto che ha avuto lo stravolgimento digitale sul mercato musicale. Insomma, ora come ora l’attitudine che Danno spiega bene nelle pagine di Colle der Fomento-Solo amore parlando di Odio pieno, oltreoceano sembra sia scomparsa o quasi.
La scena rap underground statunitense ha vissuto il suo momento d’oro tra la seconda metà degli anni Novanta e la prima dei Duemila, soprattutto grazie a una serie di etichette illuminate che hanno fatto uno scouting mirato e radunato una serie di talenti impressionante. Tra queste c’erano Rawkus, Stones Throw, Rhymesayers Entertainment, Anticon. E quella Def Jux che aveva coniato il motto identitario «Independent as Fuck». Oggi, nell’era in cui la rivoluzione digitale si è consolidata, lo scenario è cambiato e le loro eredi hanno un’attitudine meno ostile. Uno dei cambiamenti più evidenti è che non c’è più bisogno di andare in un negozio di dischi indipendente specializzato in rap per trovare o ordinare un disco autoprodotto o pubblicato da un’etichetta che non vuole ricalcare le logiche delle major ma basta navigare su una delle piattaforme streaming per ascoltarlo e contribuire così a far avere un ritorno economico agli artisti. Il problema della distribuzione, insomma, è stato superato. Discorso simile per farsi conoscere: gli algoritmi delle piattaforme streaming indirizzano – magari tramite una playlist – un singolo utente verso l’ascolto della musica che preferisce o che questo sistema presume possa apprezzare.

RISORSE ECONOMICHE
E poi ci sono i social network che permettono più o meno a chiunque di fare degli investimenti pubblicitari senza delegarli per forza a un’agenzia e così arrivare a un pubblico potenzialmente interessato alla propria musica. Nell’ambito promozionale la costante rispetto al passato è che le risorse economiche degli indipendenti non possono competere con quelle delle grandi case discografiche ma anche in questo senso è cambiato qualcosa. Perché se le dinamiche descritte valgono, a grandi linee, per tutti i generi musicali, la differenza principale è proprio che da anni il rap e i suoi derivati continuano ad accrescere il proprio pubblico e dominare le classifiche, quindi le grandi casi discografiche, che puntano di continuo a espandersi, hanno la necessità vitale di guardarsi attorno e le realtà sotterranee più intraprendenti, con senso degli affari, che guardano più al concreto e si fanno meno problemi etici, possono chiudere accordi fruttuosi restando autonome. Questa serie di cause sembra aver fatto archiviare o diventare un po’ anacronistica quell’attitudine tipica del rap underground che dava vita a una alternativa totalmente contrapposta al mainstream non solo a livello artistico ma anche organizzativo. Insomma, l’epoca a cavallo tra i due secoli in cui le etichette indipendenti statunitensi avevano creato un mercato a sé affascinando anche la realtà europea e dando molte soddisfazioni al pubblico più refrattario prima al flirt e poi alla fusione tra rap e pop, sembra appartenere a un lontano passato. Come accennato, però, marchi eredi di queste esperienze esistono, anche perché la percezione che fa definire uno stile musicale underground più o meno è sempre la stessa, e si tratta di realtà che sono state capaci di prendere le misure al nuovo mercato.

LABEL
Mello Music Group e Griselda, per esempio, sono due etichette nate rispettivamente nel 2007 e nel 2012 che godono di ottima salute… anche grazie al rapporto disteso con il mainstream. Michael Tolle, il fondatore della prima, che ha sede in Arizona, ha dichiarato più volte che, per intraprendere questa avventura, ha seguito il consiglio dell’economista e imprenditore di successo Warren Buffett di «investire i propri soldi in ciò che si conosce». Così, appena ha iniziato ad avere dei risparmi, messi da parte con altri lavori, ha deciso di puntare sempre di più sulla sua passione, l’hip hop underground, con uno spirito imprenditoriale privo di ideologia. Di recente ha dichiarato «la mia vita è il mio lavoro» per poi aggiungere che, prendendo questa strada, non ha dovuto rinunciare alla propria adolescenza: oggi ha 46 anni, dunque negli anni Novanta si è goduto il rap con l’entusiasmo tipico di quella fase della gioventù e ora, anche grazie alla rivoluzione digitale, ne promuove lo stile più ricercato semplicemente perché gli piace. Negli anni, oltre ad aver creato attorno a lui un valido team strategico, chiaramente ha avuto fiuto nella scelta di artisti (il primo che ha fatto firmare è stato Oddisee). Così, dal 2015 Mello Music Group è distribuita da Orchard, marchio di proprietà del gruppo Sony, nel 2016 è stata riconosciuta da Forbes – non proprio una fanzine o una testata che si occupa di cultura alternativa – come l’etichetta rap indipendente di maggior successo e negli ultimi anni i dischi dei suoi artisti figurano regolarmente nelle playlist delle maggiori testate musicali del mondo. Tutto senza perdere di vista la qualità musicale, senza produrre dischi pop, e senza pretendere contratti di esclusiva con gli artisti che, durante la durata dell’accordo, ricevono l’anticipo concordato in rate mensili in modo che abbiano stabilità e non si concentrino subito su come spendere il denaro. Apollo Brown, Guilty Simpson, Open Mike Eagle, Skyzoo, Homeboy Sandman, Lando Chill, Jean Grae e Quelle Chris sono solo una piccola parte degli artisti che hanno pubblicato con questa etichetta. L’ultimo in particolare è autore di uno dei dischi rap più acclamati del 2022, Deathfame, in cui la capacità di spaziare tra suoni e ritmi e la predilezione per le atmosfere oscure riporta proprio a quella voglia di sperimentare che, a cavallo tra i due secoli, ha prodotto molti dischi ispirati. Certo, i numeri su Spotify sono inferiori ai colossi del rap ma, nonostante questo, Tolle non ha mai rinunciato a puntare su Bandcamp, la piattaforma digitale prediletta da quella parte di pubblico che continua a fare scouting di musica non allineata alle ultime tendenze. D’altronde anche l’utente medio di Bandcamp condivide le proprie scoperte sui social network, perché in questa tempesta continua di post, reel, storie ecc. non ha più senso custodire il «segreto» per goderne tra pochi «eletti» come si faceva una volta. Con un approccio diverso dall’ideologia underground di una volta, più aperto a dialogare con altri mondi, ma senza rinunciare a un tipo di rap non allineato, Mello Music Group nel mercato odierno è un modello che funziona.
La storia di Griselda, nata a Buffalo, è differente: si tratta di una casa discografica e di una crew ma il marchio è comparso prima di tutto come etichetta di una linea di abbigliamento e il merchandise resta una parte importante dei suoi affari. In questo caso i fondatori sono anche artisti, e tra questi ci sono i due fratelli Westside Gunn e Conway the Machine. I rapper e producer di Griselda oltre a godere della stessa autonomia di quelli di Mello Music Group, la capitalizzano al massimo, visto che i rapporti con marchi altisonanti sono molti, da quelli con l’etichetta di Eminem all’agenzia di Jay-Z passando per la Def Jam: tutte istituzioni del rap. Ha fatto inoltre notizia il rapporto che Westside Gunn, da appassionato di moda, si è costruito con il noto stilista e imprenditore Virgil Abloh – il compianto fondatore del brand Off White e direttore creativo di Louis Vuitton, scomparso a soli 41 anni nel 2021 -, che ha finito per curare l’artwork di copertina di Pray for Paris (2020). Quest’ultimo è l’album più noto di Gunn ed è stato influenzato proprio dal suo soggiorno a Parigi realizzato durante la settimana della moda a seguito dell’invito di Abloh. Ascoltandolo, però, si può restare spiazzati da questa premessa perché, insomma, lo spiccato senso del business di Griselda e tutti questi rapporti con brand e celebrità, non hanno impedito alla musica dell’etichetta di essere, come in questo disco, per lo più hardcore, oscura, tesa e fumosa.

MONDO «ALTERNATIVE»
Insomma, il rap underground americano sembra aver archiviato quel senso di rivalità verso il mainstream dettato prima di tutto da un sentimento di orgogliosa diversità, di maggiore rettitudine: a molte persone che hanno vissuto l’adolescenza negli anni Novanta e la prima maturità a inizio Duemila sembrerà un sacrilegio ma l’attitudine di allora sembra rimpiazzata dal tentativo di sfruttare al massimo i nuovi mezzi di distribuzione e comunicazione, il rapporto diretto con il pubblico, concentrandosi sulle peculiarità musicali e senza ripudiare le multinazionali. Difficile stabilire se questo cambiamento che, per ora, interessa soprattutto gli Stati Uniti, potrà attecchire, nei prossimi anni, anche in altri mercati più piccoli, compreso quello italiano. Una differenza rispetto al passato è che anche qui da noi adesso molti giovani, crisi dopo crisi, in questi anni si sono approcciati a questa musica perché affascinati dalla possibilità di fare quella bella vita che celebrano molti rapper arrivati alla gloria partendo dal basso. Così le major, anche in Italia propongono contratti a tantissimi artisti rap, soprattutto under 20, con la speranza di trovare, in questa selva di nuove proposte, la nuova star da mettere a profitto. Ma, visto anche che la gavetta, nella sua accezione positiva di acquisizione di esperienza e crescita artistica, ormai è considerata quasi un fallimento – c’è una frenesia che ogni due mesi circa porta a celebrare nuove star del rap che magari hanno pubblicato solo pochi singoli -, alcuni rapper provenienti dall’underground si sentono oppressi e vacillano. Sempre nella biografia citata, Danno, parlando del rap di questi ultimi anni, dopo aver preso atto che «è inutile fare battaglie contro il sound commerciale», esprime un punto di vista che sembra piazzarsi in mezzo all’attitudine ideologica del passato e all’approccio realista al mercato più vicino a quello ora in voga in America: «Artisti come Sean Price, Action Bronson, Joey Badass hanno fatto vivere una sorta di piccola rinascita di un suono hip hop, che mi ha dato una nuova visione: il mainstream è come il centro commerciale, mentre quello che piace a me e a quelli come me è la bottega dell’artigiano. Una cosa che sanno apprezzare poche persone, e va bene così. Forse la mia missione è proprio quella di prendermi cura di quella nicchia che sa ricercare, scoprire, incuriosirsi». I Colle der Fomento hanno pubblicato appena quattro album nella loro lunga carriera e sin dagli esordi il loro punto di forza è stata l’esibizione dal vivo. Così, negli ultimi quindici anni circa, hanno puntato sempre di più sulla costanza dei concerti e su altre attività non sempre connesse alla musica: da tanto tempo hanno la consapevolezza di non potersi arricchire suonando e basta, anche perché continuano a non avere rapporti con le case discografiche e quando stringono accordi con brand lo fanno con realtà alternative (come, nel 2005, con Eblood Clothing, marchio legato alla cultura straight edge). D’altronde in Italia, in questa fase storica, potenzialmente il pubblico del rap che non strizza l’occhio al pop è ancora una super nicchia, per forza di cose nettamente inferiore a quello degli Stati Uniti. Dalle nostre parti, quindi, mantenersi solo con il rap che ha un’estetica underground è ancora una vera impresa. Solo nei prossimi anni capiremo se, con l’espansione del mercato rap, potrà sussistere anche qui chi, sposando un’estetica underground, riuscirà ad avere le risorse per investire su sempre più artisti non allineati all’estetica mainstream.