«La brevità non è stata una scelta. È venuta da sé. C’è una certa densità in quello che cerco di fare: non si può prolungare per 200 pagine, non le reggerebbe». Così, César Aira ha risposto a una delle tre domande che sempre gli vengono poste: quella sulla brevità dei suoi libri, che – con rare eccezioni – vanno dalle trenta alle cento pagine; l’altra riguarda la prolificità: quasi un centinaio di titoli in poco più di trent’anni, se alla narrativa si aggiungono una decina di saggi spesso notevoli; e la terza – il cui tono va dal perplesso all’estatico – è sulla irriducibile bizzarria (o meglio, l’unicità) del suo progetto letterario.

Incipit ingannatori
Nato nel 1949 a Coronel Pringles, César Aira risiede da un cinquantennio a Buenos Aires, dove scrive ogni giorno seduto al tavolino dello stesso caffè. Un progetto-puzzle, il suo, che rimanda al surrealismo e all’avanguardia e non si affida alla solidità della trama o alla perfezione della prosa, ma al «procedimento», alla fuga in avanti, all’uso sfrenato dell’assurdo, dell’ironia e dell’immaginazione.
Aperte da incipit ingannatori, le storie mutano proditoriamente argomento e punto di vista e sono abbandonate «quando smettono di cominciare», ossia quando la novità e il divertimento di chi scrive vengono meno. Sono esperimenti, giochi intellettuali, macchine per produrre stupore, paradossi calati in una scrittura trasparente e in forme sempre nuove: perché è l’azzardo della forma a fare di Aira uno scrittore nuovo a ogni libro.

onostante sia oggi un autore di fama internazionale, cui la Penguin-Random House dedica un’apposita «Biblioteca» (contraddizione non da poco, diventare protagonista di un mercato editoriale al quale la sua scrittura ha sempre voltato le spalle), Aira è, tuttavia, poco tradotto in Italia: dopo Ema, la prigioniera, edito nel ’91 da Bollati Boringhieri, sono apparsi presso Feltrinelli e Sur solo sei titoli, avidamente accolti da un numero di lettori ristretto, ma entusiasta. Tanto più interessante risulta, allora, l’apparizione di Il pittore fulminato (Fazi, pp. 93, euro  16,00 nella traduzione davvero eccellente di Raul Schenardi), che possiede in sommo grado la densità proverbiale dell’autore: ricchissimo e complesso, suscettibile di infinite interpretazioni, il testo offre – nella sua apparente levità – immagini magnifiche, riflessioni sulla natura della rappresentazione e del procedimento artistico, o su questioni epistemologiche relative alla pittura e, per analogia, alla scrittura.

Per raccontare l’avventura argentina di Johann Moritz Rugendas, pittore tedesco vissuto nella prima metà del XIX secolo e influenzato dalle teorie di Von Humboldt sulla «fisiognomica della natura», Aira sceglie un incipit in contrasto con la propria ripulsa per il romanzo storico, elargendoci un riassunto della storia familiare del protagonista, erede di una dinastia di artisti e «pittore viaggiante», che intende cogliere il carattere della natura di contrade remote (dopo quattro anni in Brasile e Messico, ne trascorse altri sedici in vari paesi dell’America Latina).
Il lettore viene così indotto ad aspettarsi uno dei tanti resoconti di viaggio ottocenteschi, dovuti a quei naturalisti ed esploratori europei che contribuirono a fondare nuove scienze, alimentarono il sogno coloniale e, per quanto riguarda l’Argentina, fornirono sostegno alla «Conquista del Deserto», la colonizzazione interna che è tra i miti fondativi della nazione e della sua letteratura. Ma, di fatto, Aira usa il suo incipit «di genere» solo come provocazione, perché subito si dedica – come in Ema, la prigioniera e in La liebre, i suoi principali testi pampeani – a demolire e parodiare il processo di costruzione dell’identità nazionale, insieme alla produzione culturale che lo accompagna.
Se nella prima parte del viaggio che li porta oltre le Ande, nella pampa, lo sguardo di Rugendas e del suo giovane amico Krause riorganizzano il paesaggio da una prospettiva esplicitamente coloniale, a poco a poco il pittore (proprio come chi narra) è catturato dalla ricerca del «procedimento» capace di portarlo verso un’arte diversa, aliena ai precetti di Humboldt. E, mentre cavalca nella pampa devastata dalle cavallette, uno spaventoso incidente gli apre infine le frontiere del nuovo stile: un fulmine distrugge il volto di colui che si è specializzato nel ritrarre la fisionomia della natura.

Nel caos del malón
Rugendas è ora un mostro, costretto a nutrirsi di morfina per placare i dolori e le convulsioni (pur sapendo che in realtà l’incidente non fu così disastroso, Aira insiste su immaginarie conferme fornite dall’epistolario del pittore, a ulteriore parodia del tradizionale racconto di viaggio). È allora che tutto cambia, portando Rugendas a un automatismo ossessivo e la sua matita a muoversi velocissima sulla carta per catturare ogni dettaglio. La sofferenza, le visioni indotte dalla morfina, il velo nero con cui si copre il viso per filtrare la luce, trasformano la sua percezione e la mettono alla prova durante il malón (la scorreria in cui gli indios si impadronivano di bestiame e donne) che gli permette di incontrarsi con l’Altro per antonomasia, l’irriducibile «selvaggio» che il nascente Stato-nazione aveva eletto a proprio nemico.
Tutta la seconda parte del romanzo è dedicata al malón, a tratti violenta danza rituale, a tratti esibizione quasi buffonesca: un caos simile a quello dei lineamenti del pittore, che all’inizio ritrae da lontano, ma poi si avvicina, «entra» nel quadro e finisce per farne parte, sedendosi attorno al fuoco tra gli indios stupefatti e ritraendoli con rapidità instancabile, come un fotografo che scatti delle istantanee. Non è più l’europeo in terre lontane, ma appartiene a un mondo che ammette ogni diversità e si regge su un ordine di altro tipo. La distanza è annullata, l’opera nasce da un nuovo sguardo. L’artista, dunque, può anche scomparire e la sua storia venire abbandonata.