Ormai molti anni fa collaborai assiduamente al manifesto, trascinatovi da tre amici cari, Severino Cesari umbro come me, Gianni Riotta, palermitano «come me» e il bolognese Stefano Benni, anzi «Benni» senza altro.

In compenso, fui io a trascinare Benni da Feltrinelli, che diventò la sua casa editrice di fiducia dopo un piccolo libro di poesie ironiche e cordiali, Prima o poi l’amore arriva. Da anni Benni è «fuori combattimento», assistito nel letto di una clinica da amici fedeli, nella sua Bologna. Ha, mi dicono, rari momenti di coscienza, ed è davvero doloroso che una mente così brillante, così attenta al reale, così amante del reale, sia chiusa, e da tempo, in un’incomunicabile solitudine.

Sono andato a rileggere con molto gusto molti episodi di Bar Sport, forse il suo libro più famoso oltre quello sui «Celestini» (ispirato da un famoso caso di crudeltà «pedagogica» e dalla loro cattolica aguzzina la Pagliuca), mentre ho un ricordo più debole dell’altro suo bar letterario, Il bar sotto il mare.

Ma ecco che quasi contemporaneamente leggo un grazioso romanzo austriaco, Il bar senza nome di Robert Seethaler (Neri Pozza, pp. 222, euro 18,00) che racconta la storia di un bar interno al mercato del Prater a Vienna, del suo gestore, dei suoi amici e dei suoi frequentatori, dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri. Una carrellata significativa, su cambiamenti impercettibili e quotidiani dentro grandi cambiamenti collettivi.

Questo romanzo simpatico e piacevole mi ha incuriosito soprattutto per la sua ambientazione. La storia di un luogo e dei suoi abitanti nel corso del tempo è uno dei modi più classici e anche più banali o più delicati di costruire un romanzo, e Seethaler sa muoversi nel suo bar come in una commedia all’italiana o in un film degli anni trenta.

Il racconto sui clienti di un bar mi ha riportato alla mente non solo il bel libro del nostro amato Benni ma altri bar, diciamo così, «letterari» – e i modi in cui è stato affrontato sarebbe un bell’argomento per una tesi, per la ricerca di uno studente/studentessa universitari di oggi, se solo i loro prof. avessero un po’ di fantasia.

Dei bar «letterari» che ricordo, il primo è quello di una formidabile commedia corale del grande Raffaele Viviani, Caffè di notte e di giorno: il bar di una via Toledo (oggi Roma) più affascinante e varia ieri che oggi. E poi quello di un altro lavoro teatrale, stavolta dell’armeno diventato yankee William Saroyan, I giorni della vita, dentro il «sogno» americano e le sue illusioni e delusioni.

Ma sopra ogni altro bar, svetta nella mia memoria e nella mia ammirazione il capolavoro di una grandissima scrittrice del Sud degli Usa non conosciuta e amata quanto meriterebbe. Si intitola La ballata del caffè triste, è del 1951 e ne è autrice Carson McCullers, che fu una geniale giovane scrittrice (1917-1967) degli stati Usa del Sud che veniva spesso a Roma e che ebbi una volta la fortuna di incrociare e riconoscere sulle scalinate di piazza di Spagna molto prima che il geniale comune di Roma non ne avesse espulso la gioventù.

Una giovane donna ricca e sola, piantata da un marito sfruttatore e crudele, viene convinta da un nano simpatico ed esuberante ad aprire un caffè che diventa, nelle loro mani, un formidabile luogo di ritrovo e di compagnia per tutti i solitari e gli sfasati e i poveri della contea, finché non torna il marito della donna e il nano non ne resta soggiogato. E tutto finisce malamente.

Il «caffè triste» del romanzo è stato per un tempo il luogo dell’utopia, diciamo pure un piccolo modello di un futuro possibile. Stimolai io la riproposta del libro a Stile Libero Einaudi ma (stupidamente, ciecamente) furono pochi i nuovi lettori che lo cercarono e apprezzarono. La prima edizione era dovuta a Longanesi. Speriamo che qualche altro editore ci riprovi, oggi, o che Einaudi torni alla carica. E lo dico anche per amore di Benni, che molto amò questo bellissimo romanzo sulla fragilità – purtroppo – delle utopie.