«E chi si dimentica quell’epoca, quando a Gaeta vedevi girare imprenditori con le valigette piene di timbri della repubblica somala e una montagna di autorizzazioni e permessi arrivati da Mogadiscio». Gianni – identità fittizia – spiega che non è il caso di fare il suo nome. È uno dei tanti lavoratori del principale porto del sud pontino, indicato da Carmine Schiavone come punto di partenza di una nave carica di rifiuti nucleari, affondata tra Salerno e Paola. «Diretta in Somalia», ha puntualizzato l’ex cassiere dei casalesi al manifesto. Parlare di Somalia a Gaeta vuol dire tornare con la mente all’ultima intervista di Ilaria Alpi. Cercava notizie sulla Shifco, la giornalista del Tg3, cinque giorni prima di essere uccisa a Mogadiscio. Era una compagnia italo-somala che aveva, proprio a Gaeta, la sua base. Qui attraccavano i pescherecci d’altura e la nave madre, la XXI Oktobaar. Ufficialmente il rapporto tra Gaeta e la Shifco era nato nel 1993, un anno prima della morte di Ilaria Alpi. La società venne monitorata a lungo sia dalla Procura di Roma che dalla commissione d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uscendone senza conseguenze. Il nome della società italo-somala entrò nel rapporto del gruppo di monitoraggio sul disarmo delle Nazioni unite, che la indicava come una delle compagnie coinvolte – nel 1992 – nel traffico di armi verso la Somalia. Notizie mai approfondite dalle autorità italiane. Oggi quel legame tra il porto di Gaeta e il Corno d’Africa riemerge nel racconto di Carmine Schiavone. Il triangolo tra Formia, Gaeta e la provincia di Frosinone era saldamente controllato dai tanti soldati di mafia arrivati da Casal di Principe, ha raccontato fin dai primi colloqui investigativi del 1993. Un controllo che fino al 1988 girava attorno alla famiglia Bardellino, per poi passare agli Schiavone dopo l’omicidio del capo clan Antonio. A rappresentare gli interessi del clan nella zona da quel momento fu Gennaro De Angelis, titolare di concessionarie a Cassino e Formia. Nei registri compilati dalle Capitanerie di Porto della Calabria non risultano affondamenti compatibili con il racconto di Carmine Schiavone. È un punto di partenza che però non contraddice – secondo i racconti raccolti dal manifesto – il ricordo dell’ex boss di Casal di Principe: «Se hanno fatto affondare una nave – racconta Gianni, profondo conoscitore della marineria di Gaeta – di certo non ne troverai traccia. Ti dico una cosa: i pescherecci che andavano in Somalia erano a Gaeta già negli anni ’80». Questo tipo di navi di altura molto spesso sfuggono ai registri dei Lloyds di Londra. E’ sicuro, ad esempio, che nel marzo 1994 uno dei pescherecci della Shifco si trovasse – sequestrato dai pirati – nella zona di Bosaso, nel nord della Somalia. Eppure non c’è nessuna indicazione nei Lloyds register. Consultando poi gli atti liberi della commissione Scalia non appare nessun approfondimento realizzato dal parlamento rispetto all’affondamento raccontato da Schiavone. Dunque rintracciare il nome della nave, i proprietari e le circostanze del presunto naufragio per confermare la deposizione dell’allora collaboratore di giustizia non sarà semplice. Non è la prima volta che la zona compresa tra i porti di Gaeta e Formia si lega ai traffici di rifiuti. L’ex comandante della polizia provinciale di Latina ha ricordato in diverse occasioni di aver rintracciato un attracco di una delle navi dei veleni – la Karin B – in quella zona, come ha raccontato il manifesto nel 2009. Secondo le informazioni preliminari, che furono raccolte in quella occasione, sarebbero stati scaricati dei fusti, poi portati, probabilmente, nella discarica di Borgo Montello. Anche in questo caso i fascicoli vennero chiusi senza nessun riscontro, finendo nell’archivio della Procura di Latina. Nel porto di Gaeta, intanto, cresce una piccola collina nera. Rottami ferrosi, da un anno raccolti e spediti verso il nord Africa e la Turchia. A febbraio l’agenzia delle dogane e la Guardia di finanza sequestrarono il tutto, ipotizzando un traffico illecito di rifiuti. Dopo qualche mese, i rottami tornarono alle società di brokeraggio, dissequestrati. «Fascicolo chiuso», assicurano i gestori del porto. Tutto regolare, dunque. «Qui da sempre funziona così, nessuno parla, ufficialmente non accade mai nulla». Gianni scuote la testa e sorride. E per un attimo ricorda lo sguardo intenso e ormai rassegnato dei giovani somali, gente che ai veleni italiani ormai ha fatto l’abitudine.