«L’influenza del blues sul pop è stata così profonda fin dai primi anni Sessanta, che oggi è difficile mantenere distinte le due cose» (Paul Oliver)
Con queste parole si apriva l’introduzione al seminale libro The Story of the Blues, pubblicato nel 1969 dal saggista e storico proveniente da Nottingham, Regno Unito. Un’affermazione che anno dopo anno si è palesata sempre più acuta e lungimirante: il blues è stato, è e probabilmente sarà, una musica «popolare» in Gran Bretagna. Lo dimostra, oltre la storicizzazione di tutte le icone pop e rock a cui Oliver accennava incluse quelle posteriori alla sua affermazione, il lascito di quel movimento culturale e artistico che venne chiamato British blues. Che non è terminato con la fine dell’epoca aurea portata avanti da nomi come, citando a caso: Cyril Davies, Chris Barber, Alexis Korner, Ainsley Dunbar, Duster Bennett, Peter Green, Eric Clapton, Chicken Shack, Fleetwood Mac, Graham Bond, Long John Baldry e mille altri. Il British blues è vivo e in forma smagliante. E non per merito esclusivo di vecchie glorie ancora ottimamente in sella, si pensi in tal senso a Robert Plant, i Rolling Stones, i Savoy Brown, John Mayall, Connie Lush e al recente disco di commiato dei Pretty Things, con cui ricordiamo ancora nel dicembre 2018 salire sul palco in una jam un amico di lunga data di nome David Gilmour. Il British blues è in una nuova e brillante stagione di creatività grazie alla freschezza di blueswomen e bluesmen di indiscutibile talento e che rappresentano il meglio di una scena musicale in piena espansione.
La principale ragione che spiega perché e quanto il blues d’oltremanica sia in una fase così florida, va ricercata ulteriormente tra le pieghe del ragionamento dell’illuminato Oliver: una miriade di formazioni, che includono anche una lunga schiera di musicisti non professionisti, pullula lungo l’intero territorio da nord a sud, divenendo quindi brodo di coltura per i fuoriclasse del futuro. I quali annoverano tra i propri ascolti oltre le leggende locali e quelle d’oltreoceano e le rispettive tradizioni, dallo skiffle ai suoni del Delta passando per lo stile di Chicago fino ad arrivare all’Hill country, anche le espressioni artistiche generazionali. Non ci si sorprenda quindi, e non si gridi allo scandalo, se il British blues del nuovo millennio includa un florilegio di alterità musicali come elettronica, hip hop e punk. Era scritto che sarebbe accaduto: d’altronde una musica folklorica secolare vive di tradizione e indiscutibilmente, di contemporaneità.

GENERAZIONI
A tirar le fila dell’intero movimento troviamo una manciata di nomi di primaria importanza tanto giovani quanto già affermati. Kyla Brox viene dalla «repubblica di Mancunia», ossia Manchester, da dove sta imponendo le sue indiscutibili qualità vocali. Non poteva essere altrimenti, considerato che è figlia d’arte del leggendario Victor, figura sconosciuta ma eminente del blues inglese al punto tale da aver suonato in jam con Janis Joplin e Jimi Hendrix con quest’ultimo che lo definì il suo cantante bianco preferito. Brox, anche notevole autrice oltre che interprete, nel 2018 si è imposta all’attenzione di pubblico e critica grazie alla vittoria dello UK Blues Challenge, seguita nel 2019 da quella nel concorso continentale, lo European Blues Challenge. Un vero pezzo da novanta, con già sei dischi alle spalle nonostante la giovane età è la cantante e chitarrista Joanne Shaw-Taylor, scoperta a sedici anni da Dave Stewart degli Eurythmics. Ha tutti i tratti della guitar heroine: assoli brucianti e profondi al tempo stesso, voce ipnotica e presenza scenica totale.
Non a caso il produttore Al Sutton ha scelto di lavorare con lei. Suo naturale alter ego al maschile è Laurence Jones: camminando nel solco degli eroi britannici della sei corde in ambito rock blues, sia in morbide ballad che quando si tratta di spingere sull’acceleratore, sta accumulando proseliti in giro per il mondo Per completare il poker dei nomi di riferimento, va giustamente citato il vecchio leone Ian Siegal, classe 1971, punto di riferimento ineludibile negli ultimi quindici anni per tutto il movimento giovanile. Voce graffiata e carisma da vendere, ha sempre saputo imporsi sia in chiave solista che nelle varie band che lo hanno supportato, tra cui spiccano i Mississippi Mudbloods, ovverosia i fratelli Luther e Cody Dickinson, Jimbo Mathus, Alvin Youngblood Hart e Garry Burnside.

IN METRO
Pur se non hanno calcato palchi di prima fascia come Siegal, a tutta una serie di formazioni va riconosciuto il merito di aver tenuta accesa la torcia prima dell’arrivo della new generation. Non si può quindi prescindere dal rammentare i veterani Vincent Flatts Final Drive, iconica boogie band di riferimento dalle parti di Birmingham. Amante del roots e dei suoni West Coast è Big Boy Butler: speaker radiofonico oltre che poderoso chitarrista e cantante con una voce che rammenta il mitico Howlin’ Wolf.
Altra piccola celebrità è Big Joe Louis, in giro già dagli anni Novanta sia a titolo personale che come titolare di backing band al soldo di nomi altisonanti come ad esempio R.L. Burnside, Homesick James, Eddie C. Campbell e Carey Bell. Originario di Kingston, Giamaica, ma trapiantato a Londra, si contraddistingue per un sound in bilico tra Freddie King e il South Side di Chicago. La Starlite Campbell Band è imperniata su un duo insieme sia sul palco che nella vita: propongono una miscela di rock blues di matrice Seventies a cui si aggiungono accenni degni di una jam band a stelle e strisce. Un portento della natura è il londinese doc Errol Linton, esplosivo armonicista che dice di sè di cantare il blues di Brixton con influenze giamaicane. Parole sacrosante per questo campione emerso dalla stazione metropolitana di Oxford Circus, dove fu scoperto da John Walters, il produttore di John Peel, il quale successivamente lo inserirà in un documentario andato in onda per la Bbc. Ovviamente non poteva mancare il «raw and dirty» della situazione: impossibile esimersi dal citare Hipbone Slim, che con i suoi Kneetremblers e anche in chiave solitaria, dai primi anni Duemila batte il vasto terreno del punk e garage blues, finendo non casualmente nel catalogo della Voodoo Rhythm.

LINEA VERDE
Conseguentemente non si può rimaner basiti se nelle corpose fila della linea verde si annoverano importanti prospetti di valore.
Lanciatissimo è James Oliver che propone sonorità di garage blues e retro rock che rimandano ad Albert Lee: dal vivo è una forza della natura e questo gli ha permesso di vincere il premio come UK Blues Emerging Artist of the Year 2020. Un riconoscimento meritatissimo per il chitarrista gallese di Blackwood. Slideman furente e adrenalinico è Troy Redfern che sembra avere nelle vene il sacro fuoco di Hound Dog Taylor, Sonny Sharrock ed Eric Sardinas, presentandosi on stage nella classica forma del power trio. E non è certo il solo: sorprende come ancora, nonostante il trascorrere delle decadi, questo tipo di combo musicale incontri i favori di una consistente fetta di pubblico. Nello stesso ambito troviamo altri esponenti di rango. Oli Brown è il nome nome più altisonante, in quanto già a soli ventuno anni nel 2010 era presente sulle copertine delle riviste di settore. Il bluesman di Norwich, pur diradando le uscite discografiche negli ultimi tempi, gode sempre di considerevole stima da critica e pubblico. Innalzando l’attitudine alla scrittura di canzoni e melodie, ma certamente senza perdere di vista il feeling sulla chitarra, si segnala Connor Selby. Ventuno anni e uno spassionato amore per i mostri sacri degli anni Settanta, al limite del revival anche nel dress code, ma certo non manca il carattere, che ha dismostrato quando è stato chiamato ad aprire per The Who a Wembley il 6 luglio 2019.
Onesto blues rock anche per la valida Dani Wilde da Hullavington, Wiltshire, portatrice di un tocco delicato e deciso, con cui sa farsi valere: dal 2009 ha dato il via a una carriera che l’ha fatta entrare più volte in classifica, le ha permesso di aggiudicarsi un British blues Awards, calcando i palchi di mezzo mondo, incluso il Womad Festival e la Royal Albert Hall. Negli ultimi tempi ha scelto di avviarsi verso una strada acustica che la valorizza ancor più, e inoltre da tempo è giornalista per testate di settore come The Blues Mag e Blues Matter.

ALZA IL VOLUME
Volumi ben più alti con i Little Triggers di Liverpool, che con il cuore a metà tra Black Keys e White Stripes cercano di sbarcare il lunario dal 2017. Dall’iniziale quartetto l’attuale line up si è assestata su un duo capitanato da Tom Hamilton, che grazie anche all’aiuto di Wilco Johnson, ex chitarrista dei Dr Feelgood, ha trovato pian piano la giusta strada per convogliare il suo enorme e smisurato talento, su cui sono riposte discrete speranze. Dalla effervescente Londra giunge Aidan Connell, personaggio di notevole spessore e con una vita artistica multiforme, capace al contempo sia di essere modello assieme a Kate Moss che abile bluesman a voce e chitarra, capace di stupire gente come David Roback dei Mazzy Star e Ric Lee dei Ten Years After, fino a condividere il palco con Liam Gallagher e The Charlatans. Stilisticamente si pone in quel magma sonoro a metà tra Hill country, Desert blues e reminiscenze alla Hendrix. Ragguardevole è anche il mondo che ruota attorno al duo degli Heymoonshaker, al secolo voce e chitarra di Andy Balcon e armonica e human beat box di Dave Crow. Al momento sono impegnati con progetti di natura personale legati alle rispettive specificità, ma va rammentato come siano riusciti a implementare nelle coordinate del blues il mondo degli street musician, del dubstep e dell’hip hop, arrivando ad essere un connettore culturale di enorme peso, oltre che a svincolarsi dalle consuete forme sonore, spostando in questo modo il blues nell’attualità. Inoltre, gli va riconosciuto il non trascurabile merito di essere degli ottimi comunicatori, arrivando a quasi sessanta milioni di visualizzazioni su youtube con uno dei loro brani di punta, diventando così dei riferimenti per una pletora di giovanissimi artisti in erba, tra cui rammentiamo il sardo Moses Concas.

SOTTO IL BIG BEN
Sempre sotto al Big Ben accadono altre cose estremamente stimolanti: la nuova frontiera dell’acustico passa tra le sapienti mani di Dana Immanuel, sia che si parli della sua Stolen Band o un altro dei vari progetti di cui è spina dorsale. Il banjo come strumento guida e un inverecondo amore per i suoni roots e downhome sono pane per i suoi denti, mentre pesca dall’american primitive music e dagli aspetti più selvaggi del punk. Dal festival di Glastonsbury passando per una esibizione in strada, la nostra eroina non muta lo spessore delle sue performances. A rendere l’atmosfera prossima al garage e al punk, occorrono due band legate tra loro dalla presenza di CJ Williams, chitarrista di New Orleans trapiantato da anni in terra d’Albione. Con gli Stage Door Guy è dentro a uno degli esempi migliori di blues punk dell’ultimo ventennio, grazie anche al carismatico sodale Adam Brody. Garage e Hill country sono invece il dna di Jimmy Regal and The Royal, spettacolare trio che farebbe drizzare le antenne agli amanti di Nine Below Zero e Jelly Roll Kings, a cui riescono ad aggiungere una giocosità degna di un club del 9th Ward della Crescent City. Meritano menzione anche artiste da cui ci si aspetta assai. Sono due «sorelle» che ognuna a proprio modo sa farsi valere. La prima è la roboante Sister Suzie con la sua Right Band dedita con stile a un r’n’b danzereccio e divertente, capace di irretire anche il pubblico dello swing. La seconda è Sister Cookie, nata a Lagos ma inglese di fatto, con una voce calda e avvolgente che le consente di andare e venire dai jazz club dell’Harlem che fu, ai juke joint sparsi nel Mississippi, un vero portento della natura.

SOLITARI
Oltre le formazioni composte da due e più elementi, tanto negli States che in Inghilterra la figura romantica e atavica dell’uomo orchestra è centrale nella narrazione musicale. Fantasmagorici one-man band, capaci di stupire sia musicalmente che nell’antica e nobile arte dell’intrattenimento. A tirar le fila da anni abbiamo Hollowbelly, il meglio del punk blues più viscerale ed elettrico. Un musicista da e per la working class con la sua incredibile cigar box guitar a tre corde. Che prende forma grazie a un altro sorprendente personaggio di nome John Wormald, liutaio di riferimento per questo genere di strumento e che a Birmingham, di tanto in tanto dismette i panni dell’artigiano per indossare quelli di Chickenbone John, dando vita ad un groove molto in linea con le coordinate stilistiche di Burnside e McDowell. In giro da tanto per le strade di Londra è lo stakanovista Lewis Floyd Henry che continua imperterrito a tenere l’amplificatore, quasi, al massimo mentre i suoi spettacoli sempre fedeli nell’anima al blues e a Hendrix, che anche esteticamente richiama, acquisiscono volta dopo volta accenti metal o vocalità rap. Dice il vero quando narra di tenere lungo la viabilità cittadina una sorta di «medicine show» per gli astanti. Certo, in chiave elettrica e con alcuni campionamenti utili alla circostanza, ma che sia funzionale e abbia eco nel pubblico è dato comprovato, come dimostra la discreta potenza di fuoco a livello social di cui può far vanto. Lo si può rintracciare sovente a Brick Lane, negli stessi luoghi calcati anche da Heymoonshaker e altri. Un imbonitore entusiasmante è Toby Barelli, meglio noto come King Size Slim. Dal 2005 racconta storie pressoché acustiche con voce ancora scintillante e intatta che alterna con siparietti intelligenti e mordaci, circostanza che gli viene universalmente riconosciuta e che lo avvicina a un’icona come Doctor Ross. Sono loro, assieme al canadese Son of Dave, ma residente sulle rive del Tamigi, ad aver aperto la strada ai songster odierni. In chiave acustica primeggia senza dubbio il selvaggio e istrionico Tom Attah, che pesca dal profondo del Mississippi Delta in ogni sua sfaccettatura. È un vero cavaliere solitario capace di intrattenere al meglio l’uditorio, che potrà quasi immaginare di aver davanti uno storyteller proveniente da un punto indefinito tra Yazoo City e Clarksdale. L’allegria non manca dalle parti di Andy Twyman: lo svela nelle info che gli attribuiscono la definizione di «comedy band», che si traduce in una miscela di blues e country, dove mette in luce il suo essere incline alla melodia. Stuzzicante lo short documentary Lone Man Band di cui è protagonista. One Man Destruction Show, già chitarrista nella punk band londinese Fat White Family, dal vivo è furore garage senza limiti che rammenta il mitico Jawbone di Detroit. Il finale non poteva che essere ad appannaggio di Funky and The Two Tone Baby, al secolo rintracciabile come Dan Turnbull: alt-blues come capita di rado di sentire. Tradizione, hip hop e dance intrisi l’un l’altro con un illuminante impiego di campionamenti, che prendono forma grazie all’uso simultaneo di chitarra, armonica, batteria, tastiere e loop station.
Un affabulatore incredibile mai uguale a sé stesso e che anche in periodo di lockdown, sa superare la freddezza dei concerti digitali con una semplicità disarmante.