Un fascista dalla pelle nera che per gli stessi camerati con i quali era passato dalle violenze di strada alle pistole restava comunque «il negretto».

BASTEREBBE QUESTO elemento per far pensare che quella di Giorgio Vale, militante di Terza Posizione e poi dei Nuclei armati rivoluzionari, morto a Roma nel 1982 prima ancora di compiere 21 anni, sia una storia «anomala». E, come raccontano Carlo Costa e Gabriele Di Giuseppe in Corpo estraneo (Milieu, pp. 262, euro 16,90, prefazione di Guido Salvini), l’accurata indagine che di Vale ricostruisce la brevissima biografia attraverso un vasto sforzo documentale, è davvero difficile in questo caso ricorrere a «facili cliché interpretativi». Mettendo insieme materiali che vanno dalle carte giudiziarie alla corrispondenza che il giovane scambiava da latitante con i famigliari, fino alle fonti orali – il fratello di Vale e diverse figure del neofascismo dell’epoca -, vengono ricostruiti i rapidi snodi di una vicenda personale tragicamente evoluta nello spazio talvolta di soli pochi mesi verso la violenza più cieca e la morte.

Dalle partite a pallone nella pineta del Belsito, nei pressi dell’allora Hotel Cavalieri Hilton, all’avvicinamento a Lotta studentesca da cui nascerà Terza Posizione, Giorgio Vale si affaccia all’estrema destra da giovanissimo. Famiglia piccolo borghese della Balduina, il padre fa il parrucchiere alle Medaglie d’oro, proprio come il papà Umberto, nato in Eritrea da un italiano e una donna locale, Giorgio ha la carnagione scura al punto che anche nel suo ambiente, malgrado il soprannome di «Drake», sarà spesso identificato per il colore della pelle.

«Anomalia» per un circuito non certo dominato come l’estrema destra odierna dall’orizzonte della supremazia bianca, ma pur sempre imbevuto di miti razzisti che non impedisce a Vale di bruciare rapidamente le tappe, tanto da diventare ancora minorenne tra i responsabili del «gruppo operativo» di Terza Posizione, che si occupava di ogni aspetto illegale, e armato, dell’organizzazione, prima di affiancare la banda che si era andata riunendo intorno a Valerio Fioravanti con la sigla dei Nar.

L’ESCALATION È RAPIDA e spietata: il 6 febbraio del 1980 fa parte del gruppo che uccide un poliziotto davanti all’Ambasciata del Libano per impadronirsi di un’arma. Tre mesi più tardi partecipa all’azione davanti al Giulio Cesare nella quali i Nar uccidono un altro agente. A settembre arriverà l’uccisione del leader siciliano di Tp Mangiameli, cui seguiranno altri omicidi e rapine: azioni a cui Vale partecipa quando non ha che 19 anni. Questo fino alla morte, avvenuta in un appartamento del Quadraro: suicidio per la polizia, ucciso dagli agenti per la famiglia e i suoi camerati.

Giorgio Vale

Se uno degli interrogativi che muovono gli autori riguarda il retaggio post-coloniale implicito nella vicenda, il fatto che proprio un «black italian» sia stato tra i protagonisti di una delle stagioni più sanguinose del neofascismo – una «presenza» che chiama implicitamente in causa la memoria nazionale come, intorno a ben altro soggetto, Costa ha illustrato firmando insieme a Lorenzo Teodonio il bel libro dedicato alla figura di Giorgio Marincola, partigiano azionista dalla pelle nera, Razza partigiana (Iacobelli, 2008) -, il portato delle domande poste da Corpo estraneo appare ancora più ampio.

PROPRIO PERCHÉ RACCONTA una drammatica storia di sangue il cui protagonista comincia a maneggiare una pistola quando è poco più che un adolescente, questo lavoro sembra indicare che una parte almeno della storia, non quella specifica di Vale – qui sommariamente riassunta -, ma forse di un’intera generazione, continua a sfuggirci. Sia chiaro, non si tratta di tornare sulle responsabilità o il ruolo svolto da questa parte politica in quegli anni, quanto piuttosto di comprendere le motivazioni individuali, il clima psicologico e i percorsi che portarono migliaia di giovani ad uccidere ed essere, talvolta uccisi. Una necessità di indagine che non si deve al mondo neofascista, quanto al bisogno di comprendere e riflettere che non può che alimentare la cultura democratica.

Stretta tra l’auto-narrazione all’insegna del vittimismo dei protagonisti e il riflesso condizionato a ridurre le loro figure sempre e soltanto a quelle di «mercenari» la cui soggettività non avrebbe nulla da rivelarci in più rispetto a ciò che già sappiamo, la sensazione è che il profilo di questi giovani continui così a sfuggirci. E non è forse un caso che sia proprio un magistrato come Guido Salvini, cui si devono alcune delle indagini più rilevanti sull’eversione di destra, a chiedersi se ad offrirci la lettura più adeguata dei protagonisti di quella stagione non sia stata un’opera letteraria come La scuola cattolica di Edoardo Albinati.