‘I was there’, Io c’ero. Chiudi le pagine di Demasiado, e lo ripeti. Senza ammuffite nostalgie, orgoglio da reduce, batter di ciglio inumidito. Io c’ero perché allora avevo intorno ai vent’anni, e quel mondo mi apparteneva. Io c’ero. In strada a manifestare, in assemblea a dibattere, tutti insieme a casa del compagno per uno spaghetto di mezzanotte e un confronto, chitarra in pugno a sbraitare Contessa, giocatore nella partita di calcio Circolo Arci versus Collettivo Lenin, militante – spasimante che discettava di politica per incantare Luisella o Maria Grazia. Io c’ero, anche se, in quel 1978, non viaggiavo verso Cuba a bordo del sovietico transatlantico Sobinov. Demasiado. La crociera dei rivoluzionari mancati, romanzo di Sandro Medici pubblicato da Derive e Approdi, racconta di una sinistra oggi sessantenne, e lo fa tornando alla memoria di un’avventura a giusto merito indimenticabile, priva di eroi e invece popolata da duecentocinquanta, umanissimi, ragazzi. Dieci anni dopo il ’68, essere giovane e di sinistra significava altra cosa da allora. E se già l’Anno Fatidico aveva riempito di significati diversi la parola comunismo, nel ’78 il Socialismo Reale puzzava di vecchio, sogno aveva smesso di esserlo da tempo e forse non lo era mai stato; sprigionava sentori aspri di autoritarismo, divieti, diktat, repressione di minoranze e dissidenze, omologazione culturale.
IL FESTIVAL DELLA GIOVENTÙ
Cuba, quel socialismo lo incarnava e lo viveva. Ne erano coscienti i ragazzi salpati da Genova per partecipare al Festival Internazionale della Gioventù a L’Avana, Sinistra Critica variamente composta e priva di inossidabili certezze. Lo sapevano Mimmo figlio della Sila, Caterina quasi sosia della Hepburn, il narciso Tancredi, Paola detta Paolativogliobene, Cesare dalla Maremma, Carlo di Modena… Lo sapeva Sandro da Roma, oggi voce narrante, ieri nome in mezzo a tanti, innamorato della musica e della spagnola Palma. Lo sapevano, ma l’Isla mandava richiami forti, Tropico della musica e del rum, del Che e della Baia dei Porci; rivoluzione imperfetta che il Festival dava occasione di annusare e sfiorare. Seimila miglia sulle onde dell’Atlantico, tredici giorni di navigazione, partecipanti che si aggiungono negli scali a Barcellona e a Lisbona ancora profumata di Garofani. «Come una fisarmonica all’ultimo respiro» è il capitolo di avvio, in cui Medici dà subito saggio delle sue intenzioni. L’Avana adesso è all’orizzonte, l’approdo dovrebbe essere (ma non sarà così) questione di poco «Struggente l’attesa di chi rincorre una meta sfuggente. Più che sfuggente, forse sfuggita, fuggita. Spostata, slittata, scivolata, sprofondata in qualche abisso oceanico. Siccome non ce la facevamo più, affioravano dubbi insensati, peraltro inaciditi dai rigurgiti di una sofferta digestione notturna… Forse avevano sbagliato rotta. O ci avevano portato chissà dove».
LA SOBINOV
‘Avevano’, cioè comandanti, ufficiali, marinai, spioni, agenti poco segreti della Sobinov, nave zeppa di velluti e lampadari cristallini «Dopo quell’iradiddio che era successo a bordo, per rappresaglia era stato deciso di scaricarci lontano, di abbandonarci su un’isola deserta a mangiarci tra noi». ‘Dopo’ è avverbio principe dell’introduzione/ flashback. Passando da un ‘dopo’ all’altro, Sandro Medici sorride su cosa significasse quarant’anni fa essere di sinistra fuori dalla porta grigia del comunismo ufficiale. E in tal modo afferma, a ragione, che la coscienza politica, la volontà e l’impegno alla lotta, non esimevano dalla spensieratezza e dalla gioia; che il buio del terrorismo non era riuscito a oscurare ogni altra idea di libertà. È lunghissimo, esilarante, ironico, affettuoso, vero soprattutto, l’elenco dei dopo. È necessaria premessa al viaggio, che diverrà magnifico pandemonio galleggiante dove la cronaca non fa in tempo a prendere nota di quanto è appena successo, perché qualcosa di nuovo sta già succedendo. Stremato dalla vertigine degli eventi, il lettore scende a L’Avana insieme ai passeggeri.
VIA TOMACELLI
Pagina 147 segna l’inizio della seconda parte di Demasiado, e a questo punto è bene chiamare in causa Sandro. Il suo viaggio comincia, non proprio nel migliore dei modi, da via Tomacelli 146, redazione storica del Manifesto di cui Medici era parte e sarebbe stato direttore tra il ’90 e il ’91. «Al giornale, non tutti erano d’accordo che io partecipassi al Festival della Gioventù. In particolare subii un cazziatone stratosferico da Rossana Rossanda. Secondo me Il manifesto non colse il fatto che per la prima volta il raduno si svolgeva fuori dall’Europa, quindi fuori dall’influenza immediata della sfera sovietica. Cuba impose la partecipazione di formazioni ‘eretiche’, soprattutto sudamericane, in lotta di resistenza e in lotta armata. Mosca dovette accettare il compromesso». Ciò che successe, e che fecero succedere quei rivoluzionari mancati del sottotitolo, lo racconti con voluta leggerezza di toni. Quanto quei personaggi e quei fatti rispondono a verità e quanto invece li hai ricamati? «Seppure con il beneficio della narrazione, le cose andarono proprio così. Anche se a leggerle oggi possono un po’sorprendere. La scelta della forma scanzonata rientra tra le ragioni per cui ho deciso di mettermi a scrivere il libro: trasmettere a chi avrebbe letto che gli anni ’70 non furono soltanto anni di sangue e di cupezza, ma anche scanzonati, allegri, avventati, teneri. C’era grande fratellanza e grande passione».
DA LENIN A LENNON
I sovietici che governano la nave appaiono figure un po’grottesche, già fuori dal tempo allora. «Siccome la Sobinov doveva trasportare gli europei e i profughi politici che vivevano in Europa, vennero scelti i peggiori delle nomenclature. Odiavano l’Occidente e consideravano i suoi partiti infidi e traditori. Ci detestavano perché eravamo eretici e blasfemi e insieme portatori di culture dannose. Di conseguenza successero un sacco di casini (Sandro ride, ndr)». Spira sul viaggio una certa aria di goliardia, la targa con la scritta Lenin sostituita con la scritta Lennon… Vengono alla mente gli Indiani Metropolitani del ’77. Forse, però, chiamarla goliardia può suonare riduttivo «Quelle culture erano molto diffuse tra i gruppi della Sinistra Critica, non ne era esente neppure la parte moderata, penso alla FIGC. Nella scia di una visione critica c’era posto per il situazionismo, gli anni ’60 americani, la Scuola di Francoforte, l’esistenzialismo francese, Il gruppo 63. Non esisteva una separazione tra ciò che pensavamo di fare politicamente e l’infrastruttura formativa su cui eravamo cresciuti. Di sicuro, una cosa ci univa, il rifiuto dell’autoritarismo e di ogni imposizione». Nella seconda parte, i giorni de L’Avana, si avverte un cambio di passo, il libro si fa cronaca meno divertita, si fa strada la consapevolezza di entrare in un mondo per certi versi mitizzato e senza dubbio sconosciuto. Che sensazioni suscitò in voi quell’impatto? «Sicuramente molta curiosità, diventata immediatamente stupore e poi incanto. Eravamo arrivati lì con una visione critica, e dunque cercavamo di leggere le cose mettendoci freddezza e razionalità. Ma non è che ci riuscissimo molto, venivamo travolti dall’atmosfera, dagli incontri. Magari sì, nella seconda parte la scrittura assume un tono riflessivo, più pacato». Una sera habanera, tu e altri ragazzi andate a casa di Maria. Lì si ascolta e si fa musica diversa dal son e dalle canzoni rivoluzionarie. Una mezza pagina del romanzo è occupata dall’elenco dei dischi di contrabbando che Maria e i suoi amici hanno accumulato, Hendrix, Bowie, Beatles, Rolling, Dylan, Genesis… Vietati, vietatissimi. All’elenco seguono considerazioni molto belle su questa e altre libertà negate. Una condizione vissuta però con dignità e con uno sguardo di speranza «Avvertii in loro, ma non solo in loro, una duplice amarezza. Politica, di fronte alle chiusure ottuse del partito comunista cubano verso espressioni culturali ispiratrici delle lotte per la libertà e i diritti. Specifica, cioè musicale nel caso di Maria. Mi riempiva di tristezza pensare che Cuba, una potenza internazionale della musica, si privasse del contributo non semplicemente artistico del rock e di altri generi solo perché occidentali».
IL RITORNO
Arriva il momento del ritorno e delle somme da tirare. Che cosa lasciava, ai rivoluzionari mancati, l’esperienza del festival? «Sapevamo che partecipare non avrebbe influito dal punto di vista politico, o che, insieme ai palestinesi, ai giovani socialdemocratici tedeschi, ai sudafricani, avremmo cambiato la linea di stretta osservanza sovietica del partito. La nostra presenza serviva a essere parte di un movimento internazionale, a creare relazioni, per esempio con i misteriosissimi vietnamiti. Eravamo tristi perché lasciavamo un posto che ci aveva regalato un momento meraviglioso». Le ultime pagine del libro non sono radunate in un capitolo. Le scandiscono brevi paragrafi, ciascuno preceduto da un nome. Tra gli altri, quelli di Mimmo, Caterina, Tancredi, Paola, Cesare, Carlo. Oggi come ieri rivoluzionari mancati. Con una punta appena più acuta di rammarico e piccoli accessi di sorridente nostalgia.