Si arriva letteralmente stremati all’ultima pagina di Camminare (traduzione di Giovanna Agabio, Adelphi, pp.125, euro  13,00), la breve ma densissima novella ambulatoria pubblicata da Thomas Bernhard nel 1971, a quarant’anni esatti. Non esistono mezze misure, con questo prosatore ipnotico e avvolgente. A differenza di quanto è accaduto ad altri maestri del Novecento, il tempo non ne ha minimamente attenuato l’efficacia, il potere di seduzione. A meno di non rifiutarlo preventivamente, non è possibile leggerlo in maniera continuata senza che, prima o poi, si venga letteralmente risucchiati dentro il suo universo mentale, soccombendo al ritmo implacabile delle sue feroci e ilari rottamazioni. Il principio retorico basilare della forza di persuasione di Bernhard sembra consistere nella ripetizione.

Come in un rito ossessivo
In una pagina memorabile del suo Tristram Shandy, Sterne aveva affermato che il segreto della sua prosa consisteva nel difficile, paradossale equilibrio della progressione e della digressione. Anche Bernhard, come tutti i grandi inventori, è un nipotino più o meno diretto di Sterne. Se va avanti, come pure è necessario non solo a ogni narrazione, ma all’atto linguistico stesso, lo fa sempre sfidando l’ostacolo, mettendo in campo una forza contraria. Ma non è il principio della digressione a ispirarlo: la qualità essenziale del suo mondo psichico è tutt’altro che digressiva. Nel suo modo di raccontare, è la ripetizione a farla da padrona, per non dire da tiranna. Come in un rito ossessivo, ogni minimo passo in avanti va ottenuto ricapitolando il già noto, ancora e ancora ribadendolo fino a superare il limite dell’insignificanza. Perché se la vecchia digressione era pur sempre un arricchimento del discorso, la ripetizione trasforma ogni cosa designata nella grottesca parodia di se stessa.

Camminare è un esempio perfetto dell’arte di Bernhard al suo apice di genialità e corrosività. È importante notare il fatto che si tratta di un racconto in prima persona, anche se l’«io» del narratore affiora molto raramente nel flusso verbale. Di lui sappiamo solo che era abituato a camminare nella periferia di Vienna con due compagni: Oehler il mercoledì, Karrer il lunedì. Ma ora che Karrer è impazzito, e rinchiuso nel manicomio dello Steinhof, cammina con Oehler entrambi i giorni. Fatta questa necessaria premessa, l’io narrante restringe radicalmente le sue prerogative. Come in tanti altri capolavori di Bernhard, il suo dire consiste quasi integralmente in un riferire le parole dell’altro. Il racconto è scandito da infiniti «così (disse) Oehler» e ruota intorno alla crisi di nervi che ha portato il sistema nervoso di Karrer al tracollo e all’internamento allo Steinhof.

Oehler, a sua volta, riferisce molte opinoni di Karrer. Ad accomunare questi imperterriti camminatori sta il lucido, disperato pessimismo che per Bernhard è la naturale conseguenza della capacità stessa di pensare. «Sappiamo che il pensiero è piena insensatezza», afferma Oehler, ma «sappiamo con altrettanta precisione che noi senza l’insensatezza del pensiero non siamo, ovvero non siamo nulla». Il narratore sembra soggiogato da Oehler così come questi sembra dipendere dal folle Karrer, che a sua volta evoca continuamente, nei suoi discorsi, il fantasma di Hollensteiner, un genio della chimica, scienziato e filosofo, costretto al suicidio dall’indifferenza dello Stato austriaco, nemico giurato di ogni forma di valore individuale.

Il suicida, il pazzo e il camminatore sembrano comporre un’allegoria, una specie di gerarchia gnostica lungo la quale pare trasmettersi un sapere, un’«arte» di resistere alla pressione intollerabile del mondo.
A complicare questo meccanismo in cui ogni enunciato viene riferito con uno scrupolo di esattezza che finisce necessariamente per essere sospetto, interviene anche la presenza negativa di Scherrer, psichiatra dello Steinhof, che invita Oelher, testimone dell’episodio, a riferire in ogni minimo dettaglio la fatale scenata di Karrer nel negozio di pantaloni di Rustenschacher.

In questo labirinto di voci, non esiste un percorso di salvezza realmente praticabile. L’esercizio del pensiero e quello del camminare, che un luogo comune fra i più longevi della tradizione vorrebbe strettamente imparentati, finiscono per sabotarsi vicendevolmente, così che il pensiero, condotto oltre ogni tollerabile limite di intensità, si trasforma in delirio, e il camminare in una pulsione grottesca, nell’inseguimento disperato di un senso che sfugge e probabilmente non è mai esistito. Terminano così, come se andassero a cozzare contro muri invalicabili, tutte le passeggiate che, da Rousseau a Walser, avevano garantito al soggetto una capacità di resistenza e un’estrema saggezza.
Quanto al pensiero, Bernhard è un analista troppo spietato del fallimento umano per non individuare nella sua stessa inflazione una catastrofe comica e tragica nello stesso tempo.

La puzza della mente
Se «il mondo è pieno di puzza», infatti, è perché «tutti svuotano le loro menti ovunque, come secchi di rifiuti». Ma nemmeno questa definitiva analogia dei prodotti dell’intelletto e della spazzatura è farina del sacco del narratore. Il suo ruolo, che ricorda una punizione dantesca, è quello di non evadere mai dalla gabbia dell’ascolto, di rendersi l’incudine sulla quale batte il martello della ripetizione. E raccontare equivale a soccombere senza più rimedio al canto di sirena dell’umano, alla sua mortale melodia di mancanza, dolore, smarrimento.