Quattro mesi al giornalista per aver accompagnato i No Tav
Condanna per Davide Falcioni Documentò lo srotolamento di uno striscione. Il pm: doveva aspettare la polizia
Condanna per Davide Falcioni Documentò lo srotolamento di uno striscione. Il pm: doveva aspettare la polizia
Condannato a quattro mesi per aver raccontato un’azione dimostrativa dei No Tav. È successo ieri al giornalista marchigiano Davide Falcioni, il tribunale di Torino l’ha riconosciuto colpevole di violazione di domicilio e violenza sulle cose. La pena è stata sospesa. L’avvocato difensore, Gianluca Vitale, definisce la sentenza «un bavaglio per la stampa». La vicenda inizia nel 2012, quando Falcioni scriveva per il portale Agoravox: «Un anno difficile per la Val Susa – spiega -, a febbraio Luca Abbà era precipitato da un traliccio dell’alta tensione, folgorato. C’erano manifestazioni e blocchi stradali continui. Ad agosto la redazione decide di mandarmi lì per un reportage sulle proteste, sei giorni a seguire il movimento contro la Tav dall’interno».
Il 24 agosto gli attivisti si presentano a Torino all’ingresso dello Geostudio, costola della Geovalsusa srl che partecipa al consorzio dei costruttori della tratta Torino-Lione. Doveva essere un volantinaggio, nell’ambito della campagna «C’è lavoro e lavoro», ma poi hanno un’idea: citofonano agli uffici dicendo di dover consegnare una raccomandata, la porta viene aperta e una ventina di No Tav entrano. «Entrai anch’io – racconta Falcioni -, rimanemmo dentro circa trenta minuti. Srotolarono uno striscione, dal balcone accesero un fumogeno. Nessuna violenza, il clima era molto rilassato, gli impiegati scherzavano. All’interno non c’era la polizia né i carabinieri».
Le forze dell’ordine alla fine arrivano e 19 attivisti vengono denunciati, l’accusa per tutti è violazione di domicilio e pure violenza sulle cose, che si traduce in «un vasetto di yogurt che qualcuno, non identificato, avrebbe rovesciato in un cassetto e la sparizione di una spillatrice», spiega Falcioni, che ora scrive per Fanpage ma all’epoca stava raccogliendo gli articoli necessari per iscriversi all’Ordine dei pubblicisti. Comincia il processo, uno degli imputati chiede al giornalista di testimoniare sul clima tranquillo nel corso dell’azione: «Durante la deposizione la pm Manuela Pedrotta mi ha informato che la mia posizione era stata stralciata e da testimone passavo a imputato. Se non fossi andato a raccontare cosa avevo visto, non avrei subito il processo».
La pm Pedrotta contesta a Falcioni di aver assistito all’azione allo Geostudio: «Non riesco a capire l’utilità di entrare dentro. Non poteva farsi raccontare quello che era successo dalle forze dell’ordine?». E ancora: «Lei è marchigiano, cose le interessava della Tav?». Infine: «Non era nemmeno un giornalista, ma anche se lo fosse stato non era scriminato» cioè non aveva una giustificazione perché, secondo la pm, «il diritto di cronaca è stato riconosciuto qualora ricorrano determinate condizioni, tra cui l’interesse pubblico» e in quel caso per la pm e la giudice Isabella Messina, che ha emesso la condanna, l’interesse pubblico non ci sarebbe stato.
«Avrei dovuto rinunciare a fare il giornalista per non commettere il reato di violazione di domicilio – commenta Falcioni -. Se mi ritrovassi in quella situazione mi comporterei allo stesso modo sono però turbato perché è un attacco a tutta la categoria. Aspettiamo le motivazioni per fare appello, speriamo in un giudice che faccia giustizia e non politica».
Duro il commento dell’avvocato Vitale: «Da quanto si ricava dalla requisitoria della pm, il problema è soltanto il contenuto dell’articolo. Evidentemente non è piaciuto alla procura. Siamo alla teorizzazione del giornalismo embedded: bisogna stare in redazione e passare solo le veline. Le parole della pm sono pericolose per la democrazia». Ieri è intervenuta anche la Federazione nazionale della stampa: «Il collega si è limitato a seguire i fatti. A meno che non venga dimostrato che Falcioni aveva preso parte alla violazione di domicilio, la condanna suona come un attacco al diritto di cronaca. L’auspicio è che in appello prevalgano le ragioni dell’articolo 21 della Costituzione».
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