Sul sito del Torino Film Festival due righe spiegavano ieri che Jean Piere Léaud, l’icona della Nouvelle Vague, non sarebbe arrivato in città «per motivi di famiglia», e forse è meglio così perché come tanti «miti» impressi sulla pellicola sentirlo oggi non aggiunge nulla alla sua storia che sono quelle immagini folgoranti. L’occasione della presenza al festival era il Gran Premio Torino assegnato quest’anno appunto all’attore francese che già da quando era ragazzino – e poi ragazzo – nei film di Truffaut ha così profondamente abitato col suo «alter ego» Antoine Doinel l’immaginario mondiale. E anche la retrospettiva dedicata a Jean Eustache, un’altra leggenda avvolta da nostalgia «vintage» delle nuove generazioni che si sono tramandate la «maledizione» di una certa invisibilità dei suoi film (ormai vera fino a un certo punto) a causa di idiosincrasie con gli eredi – il figlio Boris.

UN’OCCASIONE questa di risistematizzazione critica della sua opera al presente non colta, che invece è la ragione principale per proporre ciclicamente i grandi autori della storia del cinema, legando alla riscoperta le sinergie possibili col presente, le tracce disseminate (o no), un diverso sguardo di insieme che non sia solo monumentalizzazione celebrativa. Con Eustache Léaud ha lavorato nel suo film più conosciuto – ancora un mito – La Maman et la Putain (1973), dando vita al personaggio di Alexandre, il giovane «flaneur» nei caffè parigini, appena lasciato dalla fidanzata, senza un lavoro, che abita a casa di Marie (Bernadette Lafont volto sublime del cinema d’oltralpe) dalla quale si fa mantenere. Finchè non incontra Veronika (Françoise Lebrun), un’infermiera senza soldi come lui. Inizia così una relazione a tre in cui i personaggi oscillano da una parte all’altra, si coalizzano, si disperano, fino a tentare il suicidio, fuggono e tornano … Sarebbe fin troppo facile cogliervi una riflessione sulle sperimentazioni di vita e di rapporti del ’68 – massacri (emozionali) compresi . Scrive infatti il critico e storico francese Jean Douchet: «La Maman et la Putain è un grande film fantastico. Parigi è descritta come un luogo da incubo, è impossibile per i personaggi riuscire a allontanarsi,a staccarsi gli uni dagli altri».

DANIELE Gaglianone è uno di quei registi, e probabilmente prima spettatori, cresciuti nella cinefilia torinese intorno al festival, dove ha presentato i suoi esordi tornando spesso con un’opera che nel tempo ha saputo sintetizzare le diverse linee e spinte da cui ha preso origine. Dove bisogna stare – che verrà presentato domani nella sezione TffDoc/Fuori concorso – nasce dalla collaborazione tra il regista e MSF – Medici senza frontiere (in sala uscirà il 15 gennaio distribuito da Zalab) ed è uno di quei film soprattutto oggi «necessari». Le storie delle sue protagoniste, Elena, Jessica, Giorgia, Lorena, in diverse città d’Italia, Torino, Cosenza, Como, Pordenone, esprimono un forte segno di resistenza rispetto al nostro presente italiano nel quale la politica e molti cittadini con essa sembrano avere perduto nel linguaggio, e dunque nei gesti di convivenza pubblica, ogni pudore e rispetto nei confronti dell’altro.

LE QUATTRO donne del film lavorano nel volontariato, si occupano dei migranti nel quotidiano: niente di eroico se non fosse che in questo momento il sentimento della solidarietà è da supereroi. Le seguiamo la notte, tra la neve, nei «presidi» che cercano di dissuadere chi vuole attraversare il confine tra il Piemonte e la Francia rischiando di morire assiderato. O nelle pratiche della burocrazia, nell’organizzazione degli spazi di accoglienza …

DI FRONTE alla paura resa con violenza «sentire comune» – dalla politica al governo e dall’afasia della sua controparte – il fare semplice e ostinato di queste persone ci mostra (e mostra) una possibile opposizione. Perché il razzismo e l’esclusione resi legge contro i migranti sono rivolti anche verso di noi, verso tutti coloro che sono meno forti, la cui frustrazione è strumentalizzata con furba lucidità da coloro che sanno quanto ci sia sempre – e molto di più in momenti di crisi – di un «nemico».
Gaglianone seguendo i suoi personaggi interroga questa realtà che è la nostra, sempre più brutale, sempre più attraversata dal rancore. E lì, nelle scelte dei suoi personaggi, illumina senza retorica lo spazio della democrazia,il suo significato e insieme il senso di una società, il suo valore etico e morale.