«C’è un momento nella vita in cui ti rendi conto che tutto è sogno, e che soltanto le cose preservate dalla scrittura hanno qualche possibilità di essere reali». Con questa epigrafe d’autore si apre Tutto quel che è la vita (Guanda, traduzione di Katia Bagnoli, pp. 349, euro 18,00), il romanzo definitivo con il quale, a quasi novant’anni di età, James Salter torna a confrontarsi con la narrativa dopo una serie di volumi di squisita fattura ma tutti giocati tra il reportage di viaggio e il memoir.

Il libro è stato accolto come un autentico evento letterario, e accompagnato da recensioni scintillanti e da endorsement di alcuni tra i più importanti narratori di lingua inglese. Richard Ford, ammiratore di vecchia data, si è soffermato sulla qualità della scrittura e di una costruzione narrativa che sembra procedere frase dopo frase, e la prosa di Salter è stata esaltata in eguale misura anche da Bret Easton Ellis e Tim O’Brien, o da maestri del romanzo inglese come Julian Barnes e John Banville. Jhumpa Lahiri ha a sua volta sottolineato come la scrittura di Salter sia il frutto di una ricerca dell’essenzialità, di un’insistenza sul mot juste e di un lavoro per sottrazione che hanno pochi eguali nella narrativa contemporanea.

L’epigrafe del romanzo dice in realtà sul libro più di qualunque blurb o recensione, soprattutto se letta assieme al titolo: in originale, All That Is, «tutto quel che è», o «tutto ciò che esiste», concetto ancora più onnicomprensivo rispetto a quello veicolato dalla traduzione italiana. È come se, alla fine di un percorso letterario nel quale ogni libro è stato frutto di anni di impegno e di un complesso lavoro di intarsio e cesellatura, Salter avesse voluto approdare a una vera opera mondo, nella quale far convergere, per parafrasare le parole di Lahiri, tutto ciò che l’arte «può plasmare dalla vita quotidiana». O per tornare all’epigrafe, tutto ciò che la scrittura può sottrarre al regime del sogno, preservandolo e dandogli una possibilità, anche minima, di essere reale.

Non sorprende, vista l’ambizione dichiarata nel titolo e nell’epigrafe, che sia difficile, se non impossibile, spiegare «di che cosa parla» o «che cosa racconta» Tutto quel che è la vita. Si potrebbe affermare che il romanzo narra quarant’anni di vita di Philip Bowman, dalle sue esperienze come ufficiale di marina nelle acque del Pacifico, durante la Seconda guerra mondiale, alla carriera come editor in una piccola casa editrice newyorkese, che assurge nel corso degli anni a fucina di talenti letterari; dal primo matrimonio con una ragazza del Sud, Vivian, con la quale Philip non ha niente in comune, a parte un qualcosa di «più vitale di qualsiasi interesse condiviso… un’intesa, un accordo che non aveva bisogno di parole», e dalla quale si separa ben presto, alle storie d’amore successive, anch’esse destinate a spegnersi dolcemente o a svanire nella brutalità del tradimento; dai ripetuti viaggi a Londra o in una Spagna ancora sotto il tallone del franchismo ai traslochi, stagionali o definitivi, in case di campagna.

Eppure, Tutto quel che è la vita non è la storia di Philip Bowman o non solo, perché Salter non accetta mai di lasciarsi intrappolare dentro una narrazione in soggettiva, e lascia spazio a molti dei personaggi che Philip incontra nel corso della sua esistenza, variando continuamente il punto di vista e lanciandosi in digressioni che occupano spesso interi capitoli. Il mestiere di editor che Bowman esercita per quasi tutta la vita e i ripetuti richiami al mondo letterario, newyorkese e non, non fanno di Tutto quel che è la vita un romanzo sull’arte, tanto meno un roman à clef. I riferimenti ad alcune delle voci più significative della letteratura americana del secondo novecento, da Philip Roth a Kosinski, da Ezra Pound a Elizabeth Bishop, vanno raramente al di là di uno sbrigativo richiamo, e a parte una meravigliosa pagina sulla crisi del romanzo e sulla conseguente, crescente marginalità del mondo editoriale, Salter rifiuta deliberatamente di trasformare le pagine del suo libro in un esercizio saggistico o metanarrativo sulle sorti della letteratura.

Si potrebbe procedere all’infinito nell’elenco dei possibili temi portanti di questo romanzo, e ci si imbatterebbe ogni volta in elementi che, ancorché ben presenti e incardinati all’interno della trama, non la esauriscono, né assumono tale centralità da trasformarsi in un fulcro attorno al quale la narrazione finisca per gravitare. Indipendentemente da chi sia, di volta in volta, a prendere il proscenio, lo sguardo di Salter si sofferma solo per pochi istanti sulla figura in primo piano, per poi spostarsi su un altro personaggio, o anche su un oggetto o un elemento del paesaggio, e accompagnare il lettore dentro quella figura, quell’oggetto o quel paesaggio grazie alle virtù infinite di uno stile cristallino, reso con aderenza quasi sempre perfetta nella traduzione di Katia Bagnoli.

Un esempio scelto – letteralmente – aprendo il libro a caso. Il capitolo 15, «Il cottage», racconta una missione di Bowman a Chatham, «un luogo un tempo considerato sacro da una dea dell’amore, la poetessa Edna Millay, sirena degli anni Venti», dove lavorerà per due giorni su un manoscritto insieme a uno dei suoi scrittori preferiti. Dopo aver descritto nei dettagli la casa dello scrittore, Salter si sofferma sul paesaggio che da New York porta a Chatham, avvolto in un’atmosfera estiva insolita, vista la stagione ancora primaverile: «Il sole colpiva gli alberi con una violenza abbagliante. Nei paesi che attraversava, ragazze con le braccia e le gambe abbronzate passeggiavano pigramente davanti a negozi che sembravano chiusi. Le donne guidavano con il fazzoletto in testa e i loro uomini, protetti da caschi gialli, erano in piedi accanto a cartelli stradali che annunciavano lavori in corso. Il paesaggio era bellissimo, ma passivo. Il vuoto delle cose si innalzava come un canto corale, rendendo il cielo ancora più azzurro e più vasto».

In poche righe, il paesaggio umano e naturale trascorre da una quotidianità banale, anche se venata di inquietudine (la violenza del sole, i negozi che sembrano chiusi), a una deriva metafisica che lascia attoniti (il vuoto delle cose che si innalza come un canto): l’economia di mezzi e la potenza espressiva di questa come di tante altre pagine trova pochi equivalenti nella letteratura americana contemporanea, a parte forse negli splendidi diari di John Cheever, scrittore con il quale Salter ha più di un’affinità.

Il rifiuto deliberato di un punto di vista o di una trama unica, la densità della scrittura, che costringe continuamente a fermarsi e rileggere, per cogliere le sfumature di una frase o di un periodo, spiegano perché Salter sia sempre stato un writers’ writer, apprezzatissimo da colleghi di diverse generazioni senza però mai raggiungere il grande pubblico. Un destino che si è inevitabilmente ripetuto anche per Tutto quel che è la vita, nel quale la vastità dell’impianto narrativo rende ancor più evidente il deliberato rifiuto di punti di riferimento o chiavi di lettura troppo comode o riduttive.

Per comprendere il senso profondo di questo libro straordinario, lo strumento migliore, come ha notato Malcolm Jones nella sua ottima recensione sul New York Times, è prendere in prestito le parole dello stesso Salter, nella prefazione al suo memoir Burning the Days: «Se per un istante vi riesce di pensare alla vita come una grande casa con una serra, salotti e camere da pranzo, stanze da letto, uno studio e via dicendo, tutte insolite e luminose, i capitoli che seguono saranno, in un certo senso, altrettanti modi di guardare dentro, da una delle finestre di questa casa. Alcune delle persone che vi abitano riuscirete solo a intravederle. Ci sarà un andirivieni di visitatori. Davanti a certe finestre vorrete fermarvi di più, ma non sarà possibile. Come in tutte le case, non è mai possibile vedere tutto quel che c’è dentro».