Dopo travagliata gestazione, lo scorso 24 agosto 2022 l’Assemblea Generale Straordinaria dell’ICOM ha finalmente dato alla luce una nuova definizione di «museo». Tra le ragioni di questo aggiornamento semantico c’era l’esigenza da più parti condivisa di esplicitare la natura politica dell’istituzione museale. Nel 2019 Jette Sandahl, presidente della commissione incaricata della revisione, spiegava che il museo non può pretendere di essere neutrale di fronte alle grandi questioni sociali e politiche della realtà di cui fa parte, perché così si sottrae alle proprie responsabilità.

L’idea è stata rilanciata da Laura Raicovich nel suo saggio Lo sciopero della cultura Arte e musei nell’epoca della protesta (Nomos Edizioni, pp. 192, € 19,90, edizione italiana curata da Anna Chiara Cimoli e tradotta da Francesca Giulia La Rosa). Ex-direttrice del Queens Museum di New York, Raicovich sostiene che nessun «museo è neutrale, né lo è mai stato. Fin dalla loro nascita, i musei hanno rispecchiato un immenso squilibrio di potere e di ricchezza», pertanto la neutralità è una posizione fittizia, impraticabile e comunque ipocrita, poiché può essere invocata solo in forza di un privilegio non dichiarato. Il museo sarà engagé o non sarà; tanto vale schierarsi.

A rigore, Raicovich parla di musei ma allude in modo generico a qualunque spazio per la cultura, senza distinguere tra enti deputati alla conservazione della memoria e luoghi per la diffusione del sapere e delle arti: difende un ideale attivista militante e sogna un’istituzione radicalmente inclusiva, capace di accogliere e rappresentare l’intero caleidoscopio postmoderno delle identità e degli stili di vita, contro una concezione «cis-etero-patriarcale», bianca, colonialista e in fondo in fondo capitalista, di cui Donald Trump sarebbe lo spudorato campione.

Per argomentare, Raicovich passa in rassegna una serie di casi controversi nei quali si è ritrovata a essere implicata in prima persona o, più spesso, testimone interessata, ovvero polemiche che in anni recenti hanno appannato la reputazione di musei illustri.

Fa riferimento alla famiglia Sackler, che è stata a lungo sponsor di giganti quali il MoMA, la Tate e il Louvre grazie alle fortune accumulate con la vendita di un analgesico che negli Stati Uniti è considerato causa di innumerevoli morti. E ancora, illustra la querelle che ha visto protagonista Warren B. Kanders, già membro del comitato fiduciario del Whitney Museum, costretto alle dimissioni allorché sono emersi i suoi legami con la Safariland, azienda produttrice di attrezzature militari come i gas lacrimogeni in dotazione alle forze armate statunitensi alla frontiera con il Messico. Racconta l’imbarazzo del Walker Art Center di Minneapolis in seguito all’acquisizione di Scaffold, un’opera di Sam Durant contro la pena di morte che, in un paradosso quasi geniale, ha finito per urtare la sensibilità dei nativi Dakota rammentando loro l’esecuzione dei ribelli Sioux nel 1862 a Mankato. Discute quindi il rinvio della mostra retrospettiva di Philip Guston, esempio di autocensura preventiva motivata dalla presenza di alcune opere a contenuto satirico sul Ku Klux Klan che qualcuno, avendo chissà come smarrito il contesto, avrebbe potuto credere un’istigazione al razzismo.

Strada facendo, accenna ai criteri per il reclutamento e la sindacalizzazione dello staff museale, alle disparità salariali, ai servizi di vigilanza appaltati alla polizia, agli effetti della pandemia sui rapporti interpersonali, ecc. Per ogni tema viene menzionata qualche lodevole iniziativa, individuale o collettiva, di sensibilizzazione.

C’è tempo anche per una parentesi sulla decolonizzazione, con un plauso alla pratica del land acknowledgment, l’espressione formale con cui si riconosce l’appartenenza originaria di un territorio. Purtroppo la questione non viene approfondita quanto sarebbe stato auspicabile e quando Raicovich elogia l’Art Gallery of New South Wales quale «primo museo australiano a riconoscere come “arte” i manufatti creati dalla popolazione aborigena e isolana», tralascia tutta l’ambiguità insita in quel riconoscimento e nel concetto stesso di arte, che sono tacita ratifica di un ordine simbolico importato.

In generale, come sempre accade nel momento in cui si esaminano le politiche culturali dei musei americani, il discorso insiste molto sul ruolo dei board: organi collegiali di governo composti da manager, amministratori locali, personalità di chiara fama e, soprattutto, ricchi mecenati. Il sistema fiscale statunitense incentiva il mecenatismo concedendo generose detrazioni a chi finanzia la cultura, ma siccome il donatore può dettare le condizioni per l’investimento del denaro elargito, chi mette più soldi in sostanza comanda a prescindere dalle competenze. Ciò genera attriti e conflitti d’interesse, e limita inoltre la varietà di esperienze umane segnatamente etniche e sessuali di cui il board dovrebbe, per l’autrice, essere espressione. Raicovich suggerisce di bilanciare i finanziamenti privati con sovvenzioni pubbliche e di introdurre rappresentanti delle minoranze nei comitati.

La disponibilità di risorse economiche per i musei dipende molto dal rapporto che ogni società vive con la cultura a seconda del momento storico. Non è semplice individuare alchimie definitive tra supporto pubblico e privato. Mentre il disinteresse dei magnati americani per le competenze del gruppo dirigenziale di un museo potrebbe derivare da un’erronea interpretazione del non profit, giacché in effetti «non è così che i finanziatori costituiscono i consigli d’amministrazione delle loro aziende».

D’altra parte, il coinvolgimento delle minoranze nei board, sebbene si presenti come un’apertura democratica, può facilmente rivelarsi una subdola forma di domesticazione del dissenso. Senza contare la mai trascurabile eventualità che all’esterno venga comunicata un’immagine puramente superficiale di inclusione, assumendo nello staff o nel board qualche delegato compiacente o ininfluente – è il cosiddetto tokenism.

Ma si tratta di problemi la cui analisi esula chiaramente dai confini di un libro che non intende davvero proporre soluzioni bensì tenere viva la protesta in quanto «atto di estrema cura».

Lo sciopero della cultura è un reportage giornalistico di buoni intenti e facile lettura, che tende tuttavia a lasciarsi trasportare da una specie di bulimia per le giuste indignazioni a interposta suscettibilità, fino a diventare un pot-pourri politicamente corretto. La voglia di denunciare ogni pur larvato fenomeno discriminatorio porta Raicovich a contestare anche il paradigma della trasmissione delle informazioni, ossia il tradizionale mandato pedagogico del museo, evidentemente percepito come paternalistico; meglio praticare uno «scambio» delle conoscenze.

È curioso che il concetto di neutralità venga vagliato sul piano teorico solo molto avanti nel libro, in maniera succinta e per giunta con esiti che ribaltano gli assunti di partenza. L’autrice ricorda infatti che secondo Roland Barthes il neutro è qualcosa che cambia finemente di aspetto e magari anche di senso in base all’inclinazione dello sguardo del soggetto; in altre parole, una condizione di possibilità. Dunque, benché difficile da raggiungere tanto quanto l’equità sociale, forse l’imparzialità è un traguardo a cui malgrado tutto varrebbe la pena aspirare. No, per Raicovich la neutralità rimane un cattivo mito, «un velo che nasconde l’esercizio e il mantenimento del potere, rendendone invisibili i meccanismi: è lo status quo a cui dobbiamo opporci».