Una canzone simbolo: E l’acqua si riempie di schiuma, il cielo di fumi. La chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi… con queste parole nel 1976 iniziava il brano di Pierangelo Bertoli Eppure soffia che sarebbe poi diventata il simbolo della lotta all’inquinamento e dell’impegno in difesa della Natura.

Quarant’anni dopo, nel 2016, usciva il rapporto dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) che sentenziava che la chimica, in questo caso tramite i pesticidi, inquina ancora i nostri fiumi: nel 67% dei 1.554 punti di monitoraggio delle acque superficiali e nel 33,5% dei 3.129 punti delle acque sotterranee con valori superiori ai limiti nel 23,9% delle acque superficiali e nel 8,3% delle acque sotterranee.

«CON LA CHIMICA, SPECIALMENTE dopo la seconda guerra mondiale, è iniziato un grande esperimento in cui l’uomo è sia l’artefice che la cavia. La tecnologia si è mossa con una velocità di gran lunga superiore a quella della conoscenza della sicurezza e delle controindicazioni delle sostanze chimiche. Per arrivare a una gestione più sostenibile della chimica bisogna colmare questo divario tra tecnologia e sicurezza», afferma Pietro Paris, ingegnere responsabile della Sezione sostanze pericolose dell’Ispra. «I risultati di quel rapporto, l’ultimo di cui disponiamo, mostravano la presenza di una contaminazione diffusa» – sottolinea Pietro Paris – che interessava gran parte del territorio italiano. La contaminazione da pesticidi è più presente nell’area padano-veneta a causa sia delle caratteristiche idrologiche particolarmente delicate che dell’intenso uso agricolo della zona, ma va detto che le indagini nelle regioni del nord sono generalmente più complete e rappresentative. Vaste aree del centro-sud invece non sono adeguatamente monitorate e, inoltre, sono poche le sostanze che vengono cercate». Entro quest’anno verranno pubblicati i nuovi dati relativi al biennio 2017-2018.

STANDO ANCORA ALL’ULTIMO RAPPORTO dell’Ispra, nelle acque dei nostri fiumi sono state rilevate tutte le tipologie di pesticidi, ma gli erbicidi sono le sostanze riscontrate con maggiore frequenza per via delle modalità e del periodo di utilizzo che, con le precipitazioni intense primaverili, ne facilita la migrazione nei corpi idrici. «Il glifosate e il suo metabolita Ampa sono le sostanze – racconta Paris – che presentano il maggior numero di superamenti dei limiti di legge nelle acque superficiali. Nel 2016 le due sostanze risultavano superiori agli standard di qualità ambientale rispettivamente nel 24,5% e nel 47,8% dei siti monitorati per le acque superficiali. Bisogna tenere conto che sono state cercate solo in cinque regioni e soprattutto in Lombardia. È ragionevole ipotizzare che un’estensione delle indagini alle altre regioni porterà alla luce una contaminazione più ampia».

CI SONO POI DISERBANTI COME L’ATRAZINA che nonostante siano vietati dal 1992 si ritrovano ancora nelle acque, soprattutto sotterranee. Uno studio dell’Ispra del 2017 che ha riguardato l’intero bacino del fiume Po e basato su 15 anni di indagini ha dimostrato che ci vogliono 10 anni affinché la concentrazione della sostanza si dimezzi». Spiega Paris: «Nelle acque sotterranee del bacino, invece, l’atrazina rimane pressoché stabile ed è a livelli circa 4 volte più alti rispetto al Po. Il motivo è che in queste ultime vengono a mancare quasi del tutto i meccanismi di degradazione che operano nello strato più superficiale del suolo e la concentrazione evolve con i tempi di ricambio estremamente lenti delle falde».

QUALI SONO I RISCHI A CUI ANDIAMO incontro? È necessario considerare che spesso nelle acque sono presenti miscele di sostanze la cui composizione non può essere conosciuta a priori. «Le lacune conoscitive in tema di effetti cumulativi e una regolamentazione in cui la valutazione del rischio è fatta sulle singole sostanze consentono di affermare – spiega Paris – che il rischio dei pesticidi è sottostimato. L’uso di questi prodotti si fonda su un compromesso molto difficile da realizzare; sono sostanze pericolose rilasciate intenzionalmente nell’ambiente e il rischio non può mai essere ridotto a zero. Restando all’atrazina, vietata da anni, può causare danni all’uomo, in particolare agli organi interni attraverso esposizione prolungata o ripetuta, e reazioni allergiche della pelle».
La sostanza, inoltre, è molto tossica ed è un interferente endocrino, cioè danneggia il sistema ormonale dell’uomo.

NON SOLO PESTICIDI NELLE ACQUE dei fiumi. Ora l’attenzione è rivolta anche alla presenza di farmaci e Pfas. L’inquinamento da farmaci è un problema emergente. «Residui di questi prodotti possono essere rilasciati nell’ambiente in tutte le fasi del ciclo di vita (produzione, uso, smaltimento), ma uomo e animali – spiega Paris – sono la principale fonte di rilascio per il 70-80%. I farmaci, infatti, non sono completamente metabolizzati e con gli scarichi raggiungono i depuratori che non sono costruiti per degradare sostanze chimiche complesse e si riversano nei corpi idrici. Sono stati rinvenuti nell’ambiente antibiotici, antitumorali, antinfiammatori, antiepilettici, antidiabetici. Le concentrazioni sono generalmente basse, ma sono molecole estremamente attive anche a basse concentrazioni. Gli organismi acquatici, in particolare, sono quindi esposti per tutta la vita, con un rischio poco definibile per mancanza di dati ecotossicologici. Vi è da dire, inoltre, che molti prodotti farmaceutici immessi sul mercato anni fa non erano soggetti a una valutazione del rischio ambientale nel processo di autorizzazione».

LE SOSTANZE PERFLUOROALCHILICHE (Pfas), invece, sono balzate alla cronaca contaminando le acque del Veneto centrale – una vasta area compresa tra le province di Vicenza, Padova e Verona – a causa del rilascio da un sito industriale che per decenni ha utilizzato queste sostanze. «La contaminazione però potrebbe essere presente in tutte le zone di produzione e di utilizzo di questi composti – ricorda Paris – che servono per la fabbricazione di un grande numero di articoli e prodotti di consumo come impermeabilizzanti, antimacchia per pellami, moquette, divani e scarpe, ma anche come antiaderenti per carte forno e padelle, nei cosmetici». I Pfas sono sostanze estremamente persistenti nell’ambiente per questo sono stati trovate anche in aree remote come le zone polari, lontane dai luoghi di utilizzo, e a causa della loro capacità di bioaccumulo sono stati rinvenuti anche negli organismi viventi e nell’uomo.

L’ISPRA HA COORDINATO NEL 2018 una campagna di monitoraggio delle acque, condotta dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente, «che ha riguardato 185 stazioni, dove sono state effettuate 1110 misure e in 150 casi, il 14% del totale, sono stati trovati Pfas». Il monitoraggio delle acque sotterranee è stato eseguito su 117 stazioni, dove sono state effettuate 1154 misure e in 232 casi, il 20% del totale, sono stati trovati Pfas. Le sostanze sono presenti sull’intero territorio nazionale, ma solo Pfos e Pfoa (due tra le sostanze della famiglia che hanno avuto impiego più largo e che presentano problematiche maggiori) hanno fatto rilevare concentrazioni superiori ai limiti stabiliti dalla normativa.

CHE FARE DUNQUE PER RIDURRE il rischio d’inquinamento dei fiumi? Non esiste una risposta univoca a una domanda come questa tenendo presente che il numero delle sostanze chimiche presenti sul mercato è superiore a 120mila. «Con il Regolamento Reach, l’Europa ha messo in atto il più grande sforzo mondiale per censire e studiare le sostanze chimiche e ha avviato uno screening per individuare le sostanze più pericolose e bandirle», dice Paris. «Attualmente ne sono state individuate circa 200, ma lo sforzo di ricerca continua ed è probabile che sul mercato ve ne siano alcune migliaia. Per quanto riguarda i pesticidi, bisognerà arrivare a un processo di autorizzazione delle sostanze che tenga conto delle evidenze del monitoraggio».

Eppure il vento soffia ancora!, concludeva Bertoli.