«Ma posso vaccinarmi, quando verrà il mio turno, prima di mio figlio, sapendo che dovrà rimanere esposto al virus per mesi?». «E tu puoi vaccinarti, quando verrà il tuo tempo, prima di tua figlia, avendo, magari inconsciamente, la percezione che lei, più di te, potrebbe essere vulnerabile di fronte alla morte?».
Perché è chiaro, e lo dice il Componente del Comitato Nazionale di Bioetica, Maurizio Mori, che ci saranno morti per Covid, fra coloro che saranno vaccinati dopo.
Queste domande, che mi faccio e sento fare da giorni, sottovoce e con pudore, risuonano nella richiesta, messa in prima pagina da un giornale di provincia, di una nonna che chiede di poter donare il suo vaccino al nipote ventenne. La richiesta, lo dice lei stessa, fa sorridere (anche se il principio del “dono” in qualche modo è stato accettato dalla Commissione europea che ha dato agli Stati più ricchi la possibilità di donare agli Stati più svantaggiati). Fa sorridere anche se porta alla luce un nodo psicologico e antropologico, che riguarda, individualmente, il rapporto affettivo più profondo, e, dal punto di vista della specie, la cura per la sopravvivenza.

Riguarda anche il modello di civiltà in cui vogliamo restare. In un altro articolo, qui sul manifesto, ho scritto che per me, il modello di civiltà, è nell’immagine di Enea che porta il vecchio padre Anchise sulle spalle. Ma avrei dovuto aggiungere: e che, nello stesso tempo, dà la mano, per proteggerlo, al giovane figlio Ascanio. La civiltà ideale cioè, dovrebbe essere anche un patto fra le generazioni in cui la precedente si impegna a prendersi cura della successiva: si impegna ad aspettarla (a questo ci pensano le donne), e poi a curarla, proteggerla, e, infine, a emanciparla.

Ciò garantisce, a detta di Walter Benjamin, un’altra idea della storia. Non la storia dei vincitori, che lascia vittime per terra nella sua marcia trionfante ed esclusiva. Ma una storia che trova una “connnessione sentimentale” del tempo in quanto ognuno , che è stato atteso e che è venuto al mondo perché un altro lo ha voluto, a sua volta vuole e aspetta: aspetta il nuovo, il nascituro, l’estraneo, l’ultimo venuto.

Una connessione sentimentale del tempo in cui il vecchio non uccide il giovane figlio, come in tanti miti barbarici e nell’inconscio edipico, ma a quell’incrocio fatale, senza combattere come nella scena di Sofocle, gli dà la precedenza e quindi il valore e la vita.

Non so, dal punto di vista scientifico, se è meglio fermare la pandemia a monte o a valle: se cioè, per quella famosa “immunità di gregge”, sia meglio vaccinare prima gli anziani più esposti alla morte o i giovani, più esposti alla vita e quindi al contagio. Mi piacerebbe però che la questione fosse gestita non solo da una decisione sanitaria ma anche, in qualche modo, da una discussione di etica pubblica, visti anche i numerosi dubbi del Comitato di Bioetica, il quale, fra l’altro, nell’ultimo suo testo, meritoriamente scrive che “il vaccino deve essere considerato un bene comune”

Una discussione di etica pubblica serve al prossimo governo che dovrà per forza essere un “governo biopolitico”, per scelte che riguardano la vita e la morte, ben oltre quella già scritta nel Documento sulla strategia di uscita dalla pandemia che prevede la priorità delle “vite utili”. Spiegando che significa questa terribile frase “vite utili”, che la vita di un uomo è più utile di quella di una donna, che la vita di un abile vale più di quella di un disabile e quella di un bianco più di quella di un “nero”.

Oppure spiegare che, nell’utilità di tutte le vite, nella significazione di tutte le vite, nel principio morale, deontologico e giuridico generale della uguale dignità di ogni essere umano e di assenza di ogni discriminazione, previsto dalla nostra Costituzione, qualcuno può fare un dono: se non del suo vaccino, certo della sua libertà, del suo tempo, del suo lavoro e del suo divertimento. Io, per esempio, che pure sono una donna di strada e che soffro per la mancanza di incontri, di convegni, di politica in mezzo alla piazza, cederei la mia libertà in nome di una “solidarietà biologica e affettiva”, mi chiuderei di più in casa per dare la possibilità ai giovani, a chi ancora deve vivere, di andare a scuola e di ritornare alla socialità, agli abbracci, alla sessualità.

Ci vorrebbe un governo che abbia autorità: un governo dei migliori, ispirato non ai rapporti di forza ma alla capacità di vedere il tragico nell’umanità e di alleviarlo. E poi ci vorrebbe un popolo, che sappia farlo diventare un dono collettivo. Che si metta a disposizione per una grande campagna collettiva di uscita cooperativa dalla pandemia. Come accadde a Napoli, con l’epidemia di colera negli anni ’70. Già pochi giorni dopo l’inizio dell’emergenza, venne avviata la più grande operazione di profilassi nel secondo dopoguerra che portò alla vaccinazione di circa un milione di napoletani in una settimana. Si era messo in moto il grande mondo del dono del volontariato civile (e gratuito): a cominciare da tutte le sezioni del Pci che furono mobilitate, per dare concretamente aiuto nella somministrazione dei vaccini e per dire spiritualmente, eticamente, che la comunità comunista è una comunità universale di soccorso.

Errata corrige

In una versione precedente dell’articolo, Maurizio Mori era definito in modo errato come Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb). L’organismo presso la Presidenza del Consiglio è invece presieduto da Lorenzo D’Avack. Mori invece è un semplice componente del Cnb e presiede la Consulta di Bioetica Onlus, associazione di volontariato culturale fondata nel 1989 dal neurologo Renato Boeri e aperta alle innovazioni. Ce ne scusiamo con i lettori e gli interessati.