Anna Serlenga, 31 anni, regista teatrale, non si sente un cervello in fuga e non ha mai fatto la rivoluzione. Però da un anno e mezzo respira l’aria di Tunisi. Si è rifugiata in una delle capitali delle cosiddette «primavere arabe» per una ricerca di dottorato sul teatro al tempo della rivoluzione, e lì ha trovato il coraggio di domandarsi qual è la vita che non ha bisogno di essere cambiata. Di un popolo, ma anche la sua, come quella di chiunque altro, anche per un solo istante che non è destinato a fare storia. La ricerca è diventata uno spettacolo – Dégage! – che non vuole celebrare la rivoluzione tunisina ma soprattutto interrogare una generazione disorientata che non sa trovare risposte sull’altra sponda del Mediterraneo, la nostra. Lo spettacolo che ha debutato ieri a Milano al teatro Zona K di via Spalato 11, zona Isola (con repliche fino al 28 aprile). Sulla scena tre giovani attori rivoltosi, Saoussen Babba, Rabii Brahim e Aymen Mejri. Erano lì quando Tunisi bruciava contagiando tutto il mondo arabo.

Non deve essere semplice preparare uno spettacolo in Tunisia

No, ma sono stata travolta da una vitalità straordinaria. Ho trovato una scena vivacissima e un entusiasmo che difficilmente si trova dalle nostre parti. Senza nemmeno accorgermene sono stata sommersa da diversi progetti teatrali, un caos ma creativo. Fin qui, tutto facile. Il finanziamento ovviamente è stato ed è un problema, ancora adesso stiamo facendo una raccolta fondi. Sia a Tunisi che a Milano abbiamo almeno trovato grande disponibilità di spazi per provare e residenze per dormire. Ringrazio l’associazione Olinda del Paolo Pini. Il vero problema sono stati i visti, è quasi impossibile per un tunisino viaggiare nella fortezza Europa, anche solo per lavorare.

Perché il debutto proprio a Milano?

È la mia città ed è stato il massimo andare in scena il 25 aprile con un lavoro che chiede al pubblico di domandarsi quale è la soglia oltre la quale avvertiamo la necessità di compiere un’azione per il cambiamento. Non ci interessa fare una narrazione civile sulla rivoluzione tunisina, piuttosto vorremmo ragionare con il pubblico sul significato di ogni ribellione.

Ci racconti lo spettacolo?

È una piéce che attraversa generi diversi, un teatro politico che lavora sulla sperimentazione di linguaggi utilizzando materiali video e riprese di YouTube, uno dei motori della rivolta. Gli attori sono professionisti ma sono anche testimoni della storia che raccontano, è un teatro molto fisico.

Come descriveresti Tunisi a più di tre anni dalla rivoluzione?

Abbiamo iniziato questo lavoro un anno e mezzo fa, ma la situazione oggi è molto cambiata. La retorica della rivoluzione è solo un ricordo e la situazione per certi versi è peggiorata. La disoccupazione è cresciuta, la corruzione continua a dilagare e gli estremisti islamici cominciano a guadagnare spazi di agibilità che prima non avevano. A Tunisi si respira un’aria di equilibrio instabile ma nonostante tutto la società civile ha tenuto, prova ne è una Costituzione laica molto avanzata.

I giovani attori di Dégage! qui in Italia li definiremmo esponenti del «movimento». È per questo che si aspettavano qualcosa di diverso?

Una generazione intera si aspettava qualcosa di diverso. Saoussen, Rabii e Aymen hanno partecipato alla rivolta come migliaia di giovani distanti da associazioni o partiti. Oggi sono disillusi, l’energia che li ha tenuti insieme si è dispersa, il movimento fatica a ritrovarsi, eppure continua a esserci una capacità di reazione alle cose. I ragazzi non si sentono rappresentati, ci sono leggi restrittive, soprattutto per l’uso degli stupefacenti, hanno arrestato musicisti e rapper, di fatto sono gli artisti più popolari che fanno anche politica.

Come tanti altri, anche tu sei stata attratta dalla rivoluzione. Cosa ti rimane addosso di quell’esperienza?

Sì, è vero. Non ho mai vissuto un’esperienza equivalente, posso citare Genova 2001 ma non è minimamente paragonabile alla rivoluzione tunisina. Ho incontrato molti occidentali e tutti cercavano in qualche modo di studiare la rivoluzione, come per imparare a ricreare una necessità tutta nostra per spingerci a cambiare le cose. Adesso, come di fronte a uno specchio, mi ritrovo con un’intera generazione di giovani tunisini che sta vivendo una sorta di impasse e aspettative tradite, ma all’interno di un sistema come il nostro che si vuole democratico.