Un particolare della Buona ventura di Georges de La Tour ora al Metropolitan Museum – il volto del «ciula» al centro – sta in copertina a un’edizione de L’Anonimo Lombardo di Alberto Arbasino (Torino, Einaudi, 1973). Il dipinto è approdato al museo americano – dove, quando ero fellow, mi faceva da quadro di riferimento per iniziare la giornata – in modo rocambolesco. È vistosamente firmato G. De La Tour Fecit Lunevillae Lothar(ingiae). Si trovava da diverse generazioni presso i discendenti dei Lemonnier de Lorière, ed era finito nel castello di famiglia de la Vagotière, nella Sarthe. Qui è attribuito al pittore lorenese da Jacques Célier, nipote del proprietario, il generale Jacques de Gastines. Célier, che conosceva l’opera da quando era piccolo, aveva intuito chi ne fosse l’autore mentre era in internamento a Hemer, in Westfalia, dove aveva intercettato, nel 1943, la monografia su La Tour di Paul Jamot, uscita postuma nel 1942, e distribuita nei campi tedeschi grazie all’infaticabile Jean Rodhain, «Aumônier général des prisonniers de guerre». Il dipinto è segnalato poi da Vitale Bloch, nel 1950, dopo che gli eredi erano entrati in trattativa con il Louvre. Ma di lì a poco, tramite il mercante Wildenstein, passa – per la cifra più alta mai pagata fino ad allora per un quadro antico – sulle pareti del Met, non senza scandalo. Altro scandalo sarà la scoperta della scritta «La MERDE» (non solo merde come si dice di solito), sullo scialle della «squaw» di profilo sulla sinistra. Nel 1980 questa scritta fa credere che il dipinto sia un falso, prima che Pierre Rosenberg, allora conservatore delle pitture al Louvre, non ritrovasse un inventario, del 1879, che descrive precisamente l’opera. Da lì in poi, la parolaccia sullo scialle diventa la facezia di un restauratore antico.
La Tour non sarebbe La Tour senza Charles Sterling, il grande conoscitore, nato a Varsavia nel 1901, ma naturalizzato francese; morirà nel 1991. Dopo i primi studi a Londra, sarà allievo di Henri Focillon e passerà tutta la carriera al Louvre, come conservatore, a parte una parentesi, durante la Seconda guerra mondiale, al Met. Toccante la testimonianza della sua epurazione tramite le leggi di Vichy: accetterà inizialmente un ruolo secondario in un deposito di provincia, in un castello non lontano da Montauban, ma di fronte alla possibilità di farsi ricostruire una discendenza ariana fino a «Clovis» rifiuterà pensando al fatto che un custode algerino, in servizio nello stesso deposito, non avrebbe potuto fare altrettanto.
Sterling è forse più noto per la sua ricognizione sui primitivi francesi (nel 1941 pubblica sotto pseudonimo Les peintres du Moyen âge), o per la ricostruzione rabdomantica di Enguerrand Quarton, il pittore provenzale, attivo intorno alla metà del Quattrocento, che dal 1959 Sterling dimostra essere l’autore della straordinaria Pietà di Avignone. A lui si deve, tra le altre cose, anche la scoperta di un’opera certa di Jean Perréal, il pittore che insegna a Leonardo l’uso e la fabbricazione delle matite colorate, ma pure l’identificazione del Maître de Moulins con Jean Hey, o la staffetta con François Avril e Gianni Romano – per la sponda italiana – che ha permesso di dare un corpus e un’anagrafe al Maître de la Trinité de Turin: Antoine de Lonhy (il cui ex namepiece ora sembra provenga da Chieri). Non da ultimo bisogna ricordare il suo contributo allo studio della natura morta, intesa come sviluppo di un genere autonomo, che avrebbe il suo germe nella pittura decorativa dell’antichità romana: un’idea diventata da manuale, ma che progressivamente è stata accantonata.
Torniamo a La Tour. La mostra che segna una svolta nell’apprezzamento del pittore è Les Peintres de la réalité en France au XVIIe Siècle, tenuta al Musée de l’Orangerie a Parigi tra il 1934 e il 1935, curata appunto da Sterling con Jamot, allora conservatore onorario del Louvre. Se Sterling nel 1934 poteva affermare che erano «sette o otto persone al mondo a conoscere La Tour», ora possiamo tranquillamente dire che La Tour è uno dei nomi noti al pubblico di massa. E non solo perché una sua Maddalena a lume di candela compare in una sequenza della Sirenetta della Walt Disney (1989): verosimilmente quella – malamente tagliata – del County Museum of Art, di Los Angeles. I cartoonist non sono andati tanto lontani degli Studios.
La mostra sui Peintres de la réalité – non priva di precedenti e conseguenze tra gli artisti di quel momento, da Picasso a Balthus, a ridosso del Front populaire – arrivava a una ventina d’anni dallo scoppio del «caso La Tour». Nel 1915 Hermann Voss aveva pubblicato, sull’«Archiv für Kunstgeschichte», un articoletto dove radunava un gruppo di tre dipinti, presenti in due musei francesi: il cosiddetto Nouveau-Né di Rennes, la Negazione di Pietro e l’Apparizione dell’Angelo a San Giuseppe, tutti e due nel Musée des beaux-arts di Nantes. Questi ultimi recano la firma di La Tour, fino a Voss malamente interpretata e soprattutto non messa in relazione con le poche notizie erudite che, tra Sette e Ottocento, avevano tramandato memoria del pittore di Lunéville, che «excelloit dans les Peintures des nuits» e che aveva presentato a Luigi XIII un San Sebastiano, tanto apprezzato dal re, fino a fargli spogliare la sua stanza degli altri dipinti lì appesi.
Non si riesce a individuare il quadro dell’episodio: esistono vari soggetti di questo tipo nel corpus di La Tour distribuiti su varie cronologie. Cronologia che si gioca tutta in pochi punti fissi, a partire dal misterioso notturno di Leopoli con una data di difficile lettura, ma già considerato uno dei dipinti più antichi del pittore, prima di un suo eventuale viaggio italiano. Molti anni dopo (venti?) viene il San Pietro di Cleveland, datato 1645, e la Negazione di Pietro di Nantes che, con la data 1650, fornisce l’ultimo sicuro estremo pittorico, non entusiasmante, a noi noto dell’artista. In mezzo, in una carriera interamente lorenese, c’è una parentesi alla corte parigina tra 1639 e 1641, dove l’artista sembra ottenere il titolo di commensal du roi, che è addirittura più che peintre ordinaire. A saperla raccontare, che storia: il caravaggesco La Tour e il classicista Poussin, anno 1640, tra le mura del Louvre. Ma di lì a poco il gusto figurativo orientato sul linguaggio del nuovo pittore di corte Charles Le Brun, in pieno Grand Siècle e stile Louis XIV, contribuisce a occultare le opere di La Tour sotto il nome di altri artisti.
La riscoperta di La Tour presenta punti di tangenza con quella ottocentesca di Vermeer, ma non c’è stato un Proust a consacrarne la fama. Tocca addirittura a Roberto Longhi, durante la Prima guerra mondiale, in pieno clima anti-tedesco, segnalare ai francesi l’articolo di Voss su un loro connazionale. E bisognerà aspettare il 1926 perché il Louvre si avventuri nell’acquisto dell’Adorazione dei pastori, primo La Tour a entrare nel museo. L’operazione va in porto tramite Bloch, autore, molti anni dopo, di una monografia su La Tour voltata in italiano per volere di Longhi e pubblicata a Milano nel 1953: l’anno dei Pittori della realtà in Lombardia a Palazzo Reale, titolo preso in prestito proprio dall’esposizione parigina di vent’anni prima. La mostra longhiana sarà peraltro frequentata dal protagonista dell’Anonimo Lombardo. E pensare che il clamoroso insuccesso di pubblico di questo evento impedisce lo sbarco di Longhi sulla cattedra milanese di storia dell’arte.
I Peintres de la réalité di Sterling, dove i La Tour esposti erano già tredici, consacrano il pittore al livello di Poussin e di Lorrain. Un buon barometro del gusto internazionale è la menzione di La Tour nella monografia di Kenneth Clark su Piero della Francesca (London, Phaidon Press, 1951). Ma Bloch diceva che «non si rende un gran servizio al La Tour, quando lo si paragona a Piero della Francesca o a Vermeer».
Sarà la monografica su La Tour del 1972, tenuta anche questa volta all’Orangerie, dove Sterling è ormai solo nel comitato scientifico, a lanciare – fino ai giorni nostri, tra alti e bassi – la fortuna del pittore. L’esposizione registra ben 350.000 visitatori, ed è organizzata – sotto il controllo di Pierre Landry (che venderà, a un’esorbitante cifra, i Bari al Louvre, ansioso di riscattarsi dall’affaire Buona ventura) – da specialisti come Michel Laclotte, Rosenberg e Jacques Thuillier, che nel 1973 curerà per i «Classici dell’Arte» Rizzoli il volume su La Tour; il «Maestro del colore» Fabbri era toccato, nel 1966, ad Anna Ottani, che aveva anticipato sulla copertina il dettaglio scelto poi da Arbasino per L’Anonimo.