Il consumo di suolo – 8 mq al secondo in Italia – costituisce una delle maggiori componenti del degrado ambientale e della crisi climatica che segnano il nostro quotidiano, ed esaspera spesso le tragedie sociali, esistenziali e civili che connotano l’attualità.

Nel volume Che cosa c’è sotto? Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (AltrEconomia, 2015, pp.160) Paolo Pileri, urbanista del Politecnico di Milano, ne fornisce una lettura sistemica; utile a interpretare le relazioni tra gli errori che caratterizzano le politiche, e i crescenti disagi che segnano le condizioni del vivere. Che diventano catastrofi epocali nelle aree «dei Sud», in cui le varie forme di rendita, dapprima economica quindi finanziaria, hanno preteso di estrarre gran parte del valore dei vari territori, accaparrandosene le migliori risorse. Spesso al prezzo della distruzione di fattori essenziali dell’assetto sociale, ambientale e di vita dei contesti investiti.

La perdita di suolo – e di quello che c’è sotto – costituisce quindi un «disastro di fase» nella attuale epoca di finanziarizzazione globalizzata. La perdita di suolo – quasi sempre per urbanizzazione/cementificazione – colpisce la varietà multidimensionale della «ricchezza» racchiusa nel patrimonio territoriale, ben oltre i problemi strutturali e funzionali di organizzazione dello spazio.
Pileri spiega bene che distruggere quello strato di crosta terrestre che sta sotto i nostri piedi, «fino a una profondità variabile tra i 70 e i 200 centimetri», ci priva di funzioni e beni bioecologici, economici, agricoli, nutrizionali, decisivi per la nostra vita.

L’urbanista infatti – prima di soffermarsi sull’elaborazione concernente il problema del consumo di suolo – spiega la funzione portante di quest’ultimo rispetto all’intero assetto territoriale, e si sofferma sulla «ricca complessità» ecologica contenuta nel suolo-bene comune. Ques’ultimo ha infatti «impiegato decine di milioni di anni per presentarsi a noi nello stato in cui oggi lo conosciamo. Tra le tante cose che ha messo a punto, la più geniale riguarda forse il modo di relazionarsi con il carbonio.

Proviamo allora a capire chi porta il carbonio nel suolo: i protagonisti sono tanti, ad esempio una semplice foglia che cade silenziosa da un albero, gli aghi di un abete che piovono ogni 5 anni, una graminacea (ovvero un filo d’erba) che appassisce stendendosi sulla terra: un calabrone che vi finisce i suoi giorni, come pure un cervo un uccello; e poi lo sterco di mucca, cinghiale, lepre, passerotto, orso, topo, lucertola, lumaca e vipera, sono fonte preziosa di carbonio. Quasi nulla in natura muore quando cade a terra, e quasi tutto ritorna cibo. Quel che era rifiuto, nel suolo diviene energia vitale e vera e propria vita, di nuovo».

La perdita della componente organismica comporta effetti micro e macro, dovuti alla cancellazione degli appartai paesistici cui consegue spesso il dissesto idrogeologico. Che dunque – sottolinea Paolo Pileri – è dovuto «a bombe di cemento, altro che bombe d’acqua». Paradossalmente il cemento, icona della «sicurezza moderna del costruito novecentesco» è diventato il primo fattore di indebolimento del territorio di fronte alle ricadute dei cambiamenti climatici.

Non meno gravi sono le conseguenze in termini agroalimentari. L’autore ricorda come «tra il 1990 ed il 2006, i diciannove paesi membri UE hanno cementificato terreni agricoli contraendo la loro produzione interna annua per un equivalente di oltre 6,1 milioni di tonnellate di cemento, pari all’1% della produttività annua europea». Un dato che sembra poco rilevante ma che ha comportato la conversione forzata a produzione agricola, destinata al consumo europeo, di milioni di ettari naturali e seminaturali in paesi africani e sudamericani.

Paolo Pileri sostiene quindi la necessità di una svolta drastica nelle politiche ambientali, che innovi i modi che hanno portato alla situazione attuale di ipercementificazione, in Italia e non solo. Affrontare i nodi critici di politiche e strategie programmatiche, dall’abbattimento della rendita urbana e finanziaria, alla formulazione corretta degli strumenti di politica urbanistica, al riconoscimento di suolo e territorio quali beni comuni, significa concentrarsi su ciò che è importante. Bisogna infatti sancire la fine dell’epoca della crescita urbana e l’avvento della cosiddetta «urbanistica del recupero»: una svolta che necessita forse di qualcosa di simile a quella che Salvatore Settis ha chiamato «azione popolare».