Una delle caratteristiche salienti dell’assetto scolastico britannico dal secondo dopoguerra è la condotta quasi del tutto bipartisan tenuta nei suoi confronti da Tories e Labour. Una quasi unanimità, scaturita inizialmente dal consenso fordista basato sul welfare, che è passata indenne attraverso l’era thatcheriana e la privatizzazione – quando non il completo smantellamento – dello stato sociale che vi ebbero luogo.
Benché consacrata anima e corpo a quell’ideologia neoliberista il cui presupposto fondante è la netta revoca del ruolo stato e del settore pubblico in generale dalla vita dei cittadini, Margaret Thatcher, che dal 1970 al 1974 ricoprì la carica di Secretary of State for Education (grossomodo equivalente al nostro ministero della pubblica istruzione), sovrintese alla creazione del maggior numero di comprehensive schools (scuole medie superiori) di qualsiasi altro collega nella stessa carica prima o dopo di lei. Semplicemente perché sarebbe stato troppo complesso e costoso invertire il processo, iniziato sotto i laburisti.
Le comprehensive sono scuole superiori statali introdotte nel 1965 in Inghilterra e in Galles che non pongono limiti qualitativi ai requisiti dello studente per garantirgli l’accesso, e tantomeno discriminano in base al censo: sono frequentate dal 90 percento degli studenti britannici. Si distinguono dalle assai più sparute – ne restano 164 – grammar schools, per accedere alle quali è necessario un test d’ammissione e che sono retaggio del nemmeno troppo carsico dna classista del paese.
Ma se, da education secretary, Thatcher si era dovuta piegare alle sinergie predicate nel dopoguerra, una volta divenuta primo ministro avrebbe coscienziosamente ripudiato tale approccio, da lei considerato un nefasto fattore egualitario abbracciato dai laburisti nella pubblica istruzione non meno che negli altri servizi civili e sociali, nonché un relitto dell’economia mista di stampo keynesiano.
L’agenda di Thatcher, una volta premier – mutare il consenso fordista basato su economia reale e welfare in quello postfordista, grazie al binomio tagli al welfare/deregulation finanziaria – è filtrata pressoché indenne nella lezione blairiana fatta propria dalla socialdemocrazia europea (la stessa che con vent’anni di ritardo Renzi sta «ottimisticamente» cacciando giù per la strozza agli italiani).
In cosa consisté un simile sconvolgimento della pubblica istruzione? In una manovra di graduale privatizzazione naturalmente, tutt’altro che osteggiata nel successivo premierato di Blair. La facoltà di fare e disfare trama e ordito dello stato da parte della maggioranza di governo di turno in Gran Bretagna è data, naturalmente, dall’assenza di costituzione scritta. Il potere centrale si era fino allora affidato alla delocalizzazione specialistica della competenza, lasciando cioè agli addetti ai lavori – insegnanti, sindacati d’insegnanti, professori, funzionari scolastici – il compito di tenere la barra dell’istruzione nazionale, fidando nelle loro capacità di prendere le giuste decisioni per il bene degli studenti e delle famiglie, limitandosi a finanziarne le iniziative.
Ma con la crisi economica della fine degli anni Settanta, la controffensiva neoliberista capitanata da Thatcher prese di mira soprattutto la cultura politica di questi stessi addetti ai lavori. Rei di essere troppo contaminati da permissive ideologie socialiste, sessantottine e libertarie, corpo docente e funzionari scolastici furono additati a concausa della dissoluzione della famiglia nucleare, vecchio bastione ideologico dei conservatori della cui difesa ad oltranza l’allora Primo Ministro aveva fatto il caposaldo della propria politica.
Arrivata dunque al potere nel 1979, mossa dall’astio ideologico nei confronti di quella che considerava una conventicola di hippies, Thatcher cominciò la rifondazione sistematica dell’assetto della pubblica istruzione nazionale, rimasta finora relativamente immutata dagli anni Trenta. Con Kenneth Baker, suo education secretary dal 1986 all’89, promulgarono lo spartiacque dell’Education Reform Act del 1988, i cui principi a tutt’oggi sovrintendono la struttura della pubblica istruzione nazionale.
Le scuole primarie e secondarie sono gestite secondo i principi dell’«open enrolment» (iscrizione aperta) e del «local management». In base ad essi, le scuole medie e superiori devono iscrivere tutti i bambini i cui genitori facciano richiesta, per poi ricevere automaticamente i fondi necessari all’educazione dello scolaro e del cui uso ha piena discrezione. Questo significa creare un’ibridazione fra società e mercato in cui la scuola diventa un’azienda come un’altra, il cui successo dipende dalla qualità e desiderabilità dei prodotti, nella fattispecie i buoni risultati degli studenti agli esami, a loro volta forieri di abbondante clientela (iscrizioni) e quindi di sovvenzioni statali.
La qualità della scuola è monitorata regolarmente da un’agenzia di controllo, Ofsted, le cui ispezioni sono temutissime dagli staff degli istituti in difficoltà. Chi fa bene si merita un bollino di qualità come una bottiglia di rosso doc, nella fattispecie uno striscione colorato appeso all’ingresso della scuola. Le scuole che invece ottengono scarsi risultati sono additate al pubblico ludibrio, oltre a ricevere sanzioni disciplinari e a perdere iscritti. Una logica di soddisfatti o rimborsati, in cui le famiglie/clienti sono supremo giudice del rendimento della scuola è succeduta al sistema precedente, dove erano le istituzioni locali a decretare chi andava in quale scuola ed erogava i fondi. Così, il settore privato continua a ingoiare vaste fette della succulenta torta dell’istruzione.
Una tendenza che il recente ministro tory, Michael Gove, noto altresì per la stretta autoritaria che ha voluto imprimere a livello disciplinare (non che non vi siano grossi problemi in questo senso, come prova il recente omicidio dell’insegnante di spagnolo Ann Maguire in una scuola di Leeds da parte di un alunno sedicenne) ha rafforzato con la recente istituzione delle free school e la conferma delle academy: le prime sono scuole del tutto autonome, create dai genitori degli alunni secondo le proprie convinzioni culturali e religiose, sono sovvenzionate dalle autorità locali e non dallo stato, e non devono seguire il national curriculum (l’insieme stabilito per legge delle materie insegnate). Le seconde erano state istituite già dai laburisti per risollevare scuole in aree socialmente depresse grazie all’attrazione di sponsor privati (gruppi religiosi, istituti di beneficienza, altre scuole private).
Le free schools di Gove, che ha proseguito nella tradizione di attaccare indefessamente la cultura politica degli educatori, sono già più della metà delle scuole secondarie nazionali. Molte stanno dando prova di aver peggiorato il livello dell’insegnamento e del rendimento degli alunni, anziché elevarlo. L’assetto istituzionale del paese fa sì che le riforme non possano dimostrarsi riuscite che in corso d’opera. E se falliscono è troppo tardi, il danno è subito. Non che un simile rischio dissuada il Labour qualora vinca le prossime elezioni: l’attuale ministro ombra della pubblica istruzione, Tristram Hunt, non intende disfare quanto fatto dal predecessore ma solo introdurre dei correttivi, sempre nel segno della logica bipartisan di cui sopra. Sia il centrodestra che il centrosinistra abbracciano lo stesso feticcio meritocratico sbandierato ormai ossessivamente anche in Italia.