Nei giorni in cui la procura di Catania sequestra la nave destinata al soccorso in mare dei migranti da una Ong catalana accusansola di associazione per delinquere per aver salvato degli uomini, nei giorni in cui si profila la possibilità di un governo M5s e Lega, nei mesi in cui la xenofobia soffia sul’Europa più gelida dell’inverno più gelido degli ultimi anni, nell’era in cui è stato eletto alla presidenza degli Stati uniti l’uomo che vuole costruire un muro lungo tutto il confine col Messico, una mostra in cui si ragioni sul concetto di «punto di vista», organizzata a Roma dal Museo delle civiltà-museo etnografico «Luigi Pigorini», non è una riflessione che conviene lasciarsi scappare. The making of a point of view è, tra l’altro, uno dei tasselli del più grande progetto Swich_Sharing a world of inclusion che, provando a potenziare il «soggetto museo etnografico», ha fatto dialogare diversi artisti europei su quello che può lo sguardo dell’arte nel costruire processi di multiculturalismo e nel destituire di forza il concetto chiuso di confine.

H.H.LIM, artista cinese nato in Malesia che vive e lavora tra Roma e Panang dal 1976, tra residenza artistica e mostra collaborativa, ha «ri-guardato» le sezioni indonesiane e malesiane del museo, ripercorrendo la poderosa collezione di oggetti raccolti tra il 1865 e il 1910, ritessendone la collocazione in modo da portare alla luce tutta la potenza dialogica e concettuale che si cela nel pensiero di un altrove: «Molti degli oggetti che ho esposto su teche costruite da me sono oggetti concepiti dall’uomo per la guerra. Lance, mantelli, elmi. Pur essendo oggetti funzionali, e funzionali alla lotta, su di essi – ci dice Lim – l’uomo ha saputo incidere, con gli ornamenti di piume, le trecce di ratan, la ricerche sulle forme, la necessità del bello». Strano animale l’uomo, che appare, nelle stanze dell’enorme museo posto nella distesa disabitata dell’Eur, fragilissimo nel tentativo di difendersi dalla paura con la lotta e, al contempo, fortissimo quando è alle prese con le altezze siderali date dal fatto stesso che l’arte si pone come una necessità.

MANGIARE, DORMIRE, difendersi, fare arte. Questo sembra essere l’andamento di tutte le enormi sezioni che fanno il museo, dalla preistoria all’Ottocento, dall’Europa all’Oceania.
A comporre l’esposizione firmata da Lim parte della collezione che ripercorre le battaglie dei malesiani contro le truppe coloniali inglesi, mappe e ritrovamenti che ci ricordano di quel «viaggio a nais» dell’esploratore fiorentino Elio Modigliani (cartografie piene di riferimento all’esperienza materiale dell’attraversamento di terre inesplorate) e una rielaborazione degli oggetti esposti firmata da studenti di diverse provenienze, con la mediazione di due centri per minori migranti e in collaborazione con il Maxxi, che hanno trasformato e riconfigurato le armi indonesiane e malesiane dando loro un nuovo orizzonte di significazione. Fornendo alla stessa modalità di esposizione un nuovo respiro e una diversa prospettiva. «Non una mostra lineare, ma quattro installazioni autonome, che dialogano tra loro e con gli oggetti, facendone materia di partenza per processi creativi, conoscitivi, formativi e di riscoperta».

QUESTO PERIMETRO di lavoro, una sorta di tavola espositiva composita, è l’opera con la quale l’artista ha accolto il materiale sul quale ha lavorato. Teche pensate per essere nuova dimora per frammenti di storia riportati alla luce e che, al contempo, pongono, nel loro essere pensate per accoglienza, la questione cruciale dell’ospitalità. E, tutto intorno, tante sedie, fatte della stessa materia delle teche. Ognuna messa lì a rappresentare uno specifico punto di osservazione. Ognuna posizionata per costituire uno sguardo, senza tuttavia poter cedere all’arroganza di crederlo prevalente. O centrale. «L’ospitalità è crocevia di cammini», cantava poetando Edmond Jabes.
Le sedie, gli sguardi, il guardare relativo, il guardarsi reciproco. Appunti dorati di un esperimento delicato che si inscrive a pieno titolo nella difficile strada tracciata dagli studi postcoloniali, faticosamente impegnati a decolonizzare la più prepotente delle visioni, quella occidentale.