Fiore esotico è l’orchidea. Ma certamente plurale e cosmopolita, oltre che antichissimo – qualcuna delle sue specie pare risalire a milioni di anni fa. Non c’è da stupire che la sua immagine carnosa attraversi il mito e la letteratura, prima di finire in qualche salotto borghese, magari raddoppiata da una copia artificiale che si distingue solo al tatto. C’è il mito e la letteratura, e anche l’evocazione di un salotto borghese, pendant modernista di un panorama di grattacieli, nella nuova creazione di Pippo Delbono, Orchidee appunto. Un titolo meno diretto di quelli privilegiati altre volte dall’artista ligure, e non caso plurale. Forse perché il nucleo più intimo dello spettacolo non può essere detto, direttamente, bisogna circumnavigarlo, trovare un punto di approdo per chi è disposto a rischiare un coinvolgimento più personale.
Ci eravamo lasciati «dopo la battaglia», due stagioni fa. E bisognava concentrarsi allora sulla preposizione, per aprirsi in fine a una speranza proiettata all’infinito, a un affetto espansivo capace di dare concretezza al ricominciare che c’è dopo ogni fine, senza rinunciare a prendere posizione contro lo spirito dei tempi. Che non sono migliori oggi, che anzi sollecitano l’urgenza di una reazione di fronte all’attacco in atto ai fondamenti della nostra democrazia parlamentare. Mia mamma non ci capiva più niente, dice Delbono. Come all’inizio di Barboni, lo spettacolo che aveva in qualche maniera segnato la sua rinascita artistica dopo il buio feroce della malattia, anche Orchidee prende avvio da una nota personale. Dal peso di una assenza. La morte della madre avvenuta nella primavera dell’anno scorso, con quel sentimento del tempo che ci sfugge, e si vorrebbe fermare, che ben conosciamo. A cui risponde qui un gioioso urlo di dolore.

Non è un caso certo che la scena si presenti del tutto spoglia di arredi, solo uno schermo a occupare per intero il fondale. Sarà anche per soddisfare la vocazione cinematografica che di recente punge l’attore Delbono, ma non si sfugge a un senso di azzeramento, quasi il bisogno di ripartire da una pagina bianca. E quel palcoscenico denudato, che il frequente accendersi delle luci in sala riconnette di continuo con lo spettatore, sembra far da moltiplicatore a ciò che vi si manifesta. La poesia di Pasolini in morte della sorellina minore Marilyn Monroe con cui si chiude La rabbia si alterna ai proclami del rivoluzionario Marat e al bisogno di Anaïs Nin di creare un mondo per poterci vivere. Le incursioni solitarie dell’artefice si dissolvono nella coralità del ballo o nell’irrompere delle tre ragazze in rosso precipitate qui da Dopo la battaglia, alle prese con un inquietante mucchio di scarpe scaricato al centro della scena.

Con i cambiamenti di ritmo dettati da una accuratissima (come sempre) drammaturgia musicale, dalla contemporaneità anche politica delle musiche di Enzo Avitabile scivolando verso il lontano hard rock dei Deep Purple di Child in time che cantava di una linea da tracciare fra il buono e il cattivo, per tornare ai ballabili anni ottanta del Gruppo italiano, nell’insensatezza trascinante del loro «Bevila perché è tropicana ye».

Il regista non crede più nel testo, viene fuori a dire un’attrice. Ma quando mai lo ha fatto? Danza, danza, altrimenti sei perduto, insegnava la sua maestra Pina Bausch. Una che a carezze e schiaffi ha educato il pubblico fedele, insinuando qualcosa di disturbante anche nelle immagini più leggere. E Delbono non sembra aver dimenticato la lezione, c’è qui anche un omaggio esplicito alla coreografa di Wuppertal, una passerella di tutti gli interpreti che in fila scendono in platea ripetendo all’unisono un medesimo codice gestuale, puro 1980 (inteso come titolo di uno dei memorabili Stücke bauschiani, altrettanto capace di gridare gioiosamente un dolore privato dentro la festa che si consumava su un verde tappeto erboso).

E infatti ecco subito emergere da qualche anfratto della memoria le parole di Romeo e Giulietta. E ci sarà, più avanti, anche il monologo di Amleto, il più rabbioso che possiamo ricordare, ad anticipare l’evocazione della morte per acqua di Ofelia. [do action=”citazione”]Ma la minorazione del testo drammaturgico cui ci ha abituato la regia novecentesca non significa sfiducia nella parola. Che anzi, la parola, sembra aumentare il proprio peso specifico, una volta liberata dalle trappole della trama e del personaggio.[/do]

Tornano nel ballo i compagni di sempre, attorno a Bobò costretto in poltrona dall’infortunio a un piede, in una compagnia in parte rinnovata nella componente femminile. Grazia che dalla Sicilia se ne è andata a Christiania, la città libera dell’utopia libertaria cresciuta fra i canali di Copenaghen, e ora eccola qui a ballare da sola un ballo sensualissimo. O quell’altra che mette in vendita le copie di quadri famosi di cui si circondava la nonna di Cremona – ardita, ci sta anche l’Olympia di Manet. Anche la casa di Varazze è in vendita, l’immagine filmata si sofferma sulla camera da letto del ragazzo che l’abitò, prima di aprirsi la strada verso l’esterno di alberi in fiore. Ed è subito Giardino dei ciliegi, con tutte le domande che ancor oggi ci pone il dramma cechoviano, cosa fare del «giardino» che ci è stato lasciato in eredità.

Danza una sua danza di uccello, Delbono, con quella grazia un po’ goffa che gli permette di fare qualunque cosa, perché il sapere tecnico non va esibito. E un poco per volta, per slittamenti successivi, ci porta verso quel nucleo intimo di commovente spaesamento. Le immagini ora sono fisse sul volto della madre morente, sulle sue dita ossute che la mano del figlio accarezza. Dita di morto chiamavano le fanciulle, nell’Inghilterra di Shakespeare, quei fiori purpurei che ornano le ghirlande posate sul corpo di Ofelia. Orchidee. Ma ormai la metafora floreale ha compiuto il suo zodiaco, nei bianchi e nei rosa che invadono lo schermo. E quel che ci lascia è ciò che lo spettacolo ha cercato di dirci dall’inizio. Questo mondo non ci piace ma è l’unico mondo che abbiamo a disposizione.