«Il vignaiolo deve fare ricerca dentro di sé e nel mondo. Deve trovare la strada e seguirla». È impossibile raccontare compiutamente Joško Gravner, questo vignaiolo nato e cresciuto in famiglia e terra contadine che ha vissuto da sempre tra vigneto e cantina, trasformando il tempo in strumento di riflessione ed evoluzione.

«La strada – prosegue Gravner -, non è da inventare. La storia ci ha detto tutto. Il mestiere del vignaiolo non è fare i vini naturali perché la natura dà l’uva e non il vino. Il vino è un prodotto umano, culturale, non della natura. Alla base devono esserci la ricerca e la conoscenza, soprattutto della storia». È così che ha Joško Gravner ha inventato un alfabeto nuovo, in cui fare vino significa produrre un bene della terra, ma soprattutto pensare e costruire una visione del mondo e della vita con al centro la sensibilità, l’appassionata conoscenza della storia enoica, il rispetto per la terra che ospita il vigneto, per chi lo lavora e per chi il vino berrà.

I suoi vigneti si trovano a Oslavia, frazione del comune di Gorizia appoggiata sul cuore pulsante del Collio/Brda, a un tiro di schioppo dal confine con la Slovenia, dove quelle colline continuano. Ponca e clima ventilato. Terra baciata da dio per la coltivazione della vite. Ma solo se la si lascia esprimere al meglio.

Cosa significa oggi, per lei, fare vino?
Il vino è il pensiero di chi lo fa. Il mio percorso è stato lungo perché volevo arrivare a fare cose semplici. La semplicità che cercavo si è rivelata complessa, ho dovuto indagare, anche nel passato, per definire una visione chiara.

Come si impara a fare un vino semplice?
È il pensiero che conduce a fare vini semplici, non l’enologia. Quella, è ovvio, la devi conoscere. Ma sono il tuo percorso e la tua vita che contano, le tue scelte. Un medico oggi è influenzato dalla farmacia, dico io. È l’industria farmaceutica che gli suggerisce cosa deve prescrivere. E per il vignaiolo c’è l’industria enologica e agronomica che detta legge. Invece bisogna trovare la propria strada. Fare il vino semplice è come cercare l’acqua pulita. La trovi solo alla sorgente. Devi guardare indietro, ma non in senso nostalgico: devi riappropriarti di un sapere che diventa la garanzia per il futuro del vino, dell’ambiente, delle nostre vite.

Quando ha avuto l’intuizione che la storia del vino fosse più importante dei supposti progressi tecnologici e agronomici?
Ho fatto un viaggio in California negli anni Ottanta. In una cantina importante abbiamo assaggiato un Sauvignon di cui la proprietaria tesseva le lodi: era il primo vino che realizzavano con aromi sintetici. Lo giudicava eccellente. Sono tornato a casa, mi aspettava Marija, mia moglie, che mi ha chiesto del viaggio. Le ho detto che avevo imparato quello che non si doveva fare. Era un modello da cancellare. Poi ho cominciato a guardare ai paesi di cui è originaria la vite e dove è stata inizialmente coltivata. Sono arrivato alla Georgia. Mi sono interessato ai sistemi di vinificazione tradizionale. Ho scoperto l’anfora. La prima è arrivata a Oslavia una ventina di anni fa, nel 1997.

Nel frattempo c’erano le riflessioni sul versante agronomico…
La monocoltura della vite è una visione da sorpassare. Il vigneto è un ecosistema. Ci vogliono gli alberi, così gli uccelli possono nidificare. Ci vuole l’erba. Non è un quadro bucolico: un equilibrio di biodiversità è garanzia di vita e di sanità delle piante. Il vigneto è un giardino. Il vignaiolo deve lavorare per mantenere l’equilibrio ambientale. Servono piante da frutto, porzioni di bosco, l’acqua. Ma non le irrigazioni, un’aberrazione. Come si può pensare di abbeverare le viti? Sono piante le cui radici arrivano a molti metri di profondità per cercare acqua; scavando, dal terreno traggono sostanze e minerali di cui si alimentano e che nel vino daranno carattere e territorialità. Se spendi migliaia di euro per impianti di irrigazione, sprechi soldi e disperdi l’acqua, che è un bene prezioso. Ma rovini anche il vino perché le radici di quella pianta si fermeranno in superficie, assopite da tanta abbondanza. L’uva sarà ricchissima di acqua e il vino sarà un vino povero.

Da quanto tempo hai rinunciato ai concimi?
Sono oltre 30 anni che non entra un grammo di concime di sintesi in casa mia. La viticoltura legata alla chimica è un business. Tu concimi, stimoli la produzione, stressi le piante e dopo una ventina d’anni le devi estirpare e reimpiantare perché non ce la fanno più. E ricominci il ciclo. Tutto per non avere lasciato spazio alla crescita della vite secondo la sua fisiologia. Basterebbe favorirla e non contrastarla. La vite c’è, il vignaiolo deve curare la vitalità del suolo che si travaserà nella pianta e nei suoi frutti. Vige invece un sistema perverso in cui si alleva l’uva come si allevano le galline nelle gabbie.

Come si rapporta con il mercato?
Stare nel mercato è difficile, è una gran baraonda in cui ha più spazio chi è disposto a fare il pagliaccio e far volare i piatti per aria. Ma appena si distrae i piatti vanno in frantumi e per lui lo spettacolo è finito. Non si può raccontare qualcosa di diverso da quello che si fa.

Pensa che i suoi vini oggi siano capiti?
Mano a mano si sono fatti strada. Ma resta un problema di fondo. Io dico che quando il «dio natura» ha distribuito la facoltà del gusto il 90% degli uomini ha marinato la lezione. Siamo abituati fin da piccoli a mangiare schifezze e ci roviniamo il palato. Questo ci fa perdere la facoltà di scegliere, ed è un problema. Lo è forse soprattutto per l’approccio ai vini.

Cosa si può fare per recuperare la facoltà del gusto?
Prima di tutto i produttori devono prendersi la responsabilità di fare vini semplici. Che significa curare la pianta, accompagnare l’uva a maturazione, raccoglierla sana, ridurre al minimo lo stress delle lavorazioni e utilizzare la solforosa con molto giudizio. La solforosa è necessaria alla conservazione, ma va ridotta al minimo indispensabile. La usavano già gli antichi Romani. Oggi in cantina il problema sono semmai gli oltre 300 additivi consentiti, utilizzabili senza obbligo di dichiararli in etichetta.
Meno fai, migliore prodotto ottieni. Asseconda la natura e la fisiologia della pianta. Fai poco. Ma lo devi fare al momento giusto e nel modo giusto. Ci vuole intuizione e rigore. Fare questo poco, forse, è difficile. Lo ammetto.

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Il programma di «Nutrimenti», a San Giorgio Maggiore

Dal 4 al 7 luglio (Isola di San Giorgio, Venezia) per conoscere l’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli, luogo di pensiero e di formazione per raccontare la civiltà della terra e della tavola presentandone i prodotti come elementi di cultura materiale. Uno sguardo che li lega al paesaggio, alle reti di relazione, alle gioie e alle contraddizioni del mondo reale che sta dietro allo «spettacolo del cibo». Nata dalla collaborazione tra il Seminario Permanente Luigi Veronelli e la Fondazione Giorgio Cini, l’Alta Scuola fa suo il metodo che fu del grande critico e intellettuale cui è intitolata: connettere saperi e discipline per contribuire a un nuovo immaginario alimentare. Prima iniziativa pubblica è «NutriMenti |Settimana della Cultura gastronomica». Tra gli ospiti Joško Gravner, Alberto Capatti, Aldo Colonetti, Francesco Radino, Ilaria Bussoni, Marco Martella, Ezio Mescalchin, Massimo Bertamini, Alberto Natale, Stefano Castriota, Renata Codello, Simonetta Lorigliola, Pierluigi Basso Fossali, Alberto Grandi, Michele Spanò. Per partecipare è necessaria la prenotazione su www.altascuolaveronelli.it dove è presente il programma completo.