Ci sono vite che sembrano allungarsi pigre nel tempo come tante linee parallele, senza mai incontrarsi. Fino al giorno inatteso in cui, semplicemente, ci si trova a percepire i propri atti consueti come inspiegabilmente «maldestri»: la muta sintonia delle cose ha smesso misteriosamente di funzionare. Nessun fatto eclatante. Come mille altri giorni prima, il vecchio medico prossimo alla pensione allunga la mano per porgere il cappotto all’anziana segretaria e lei invece fa per afferrare il suo bastone, così le loro mani si scontrano. I marciapiedi cominciano ad apparire faticosamente irregolari per delle gambe non più ferme. La superficie della vita si increspa, si sta preparando una tempesta? Romanzo di debutto della giovane scrittrice e psicologa danese Anne Cathrine Bomann, già in uscita in diciotto paesi, L’ora di Agathe (traduzione di Maria Valeria D’Avino, Iperborea, pp. 160, euro 15) racconta la storia di questa inevitabile tempesta perfetta.
Uno psicoanalista settantaduenne, solitario, estremamente abitudinario, niente moglie e niente amici, si accorge a poco a poco che le ultime ore di lavoro – rigorosamente contate – che lo separano dalla pensione non stanno andando come si aspettava. Una giovane paziente inattesa, un’anziana segretaria iper-efficiente che per la prima volta si rivela nella sua fragile umanità, lo costringono a fare i conti con se stesso, e nel travaglio dello scontro tra vite non più parallele si apre la possibilità di una rinascita.

Lei ha scritto un romanzo intimista, in prima persona, in cui la voce narrante è quella di un vecchio psicoanalista, un uomo, mentre lei è una giovane analista, donna. Che cosa significa da un punto di vista sia estetico che analitico?
In realtà per me non si è trattato di una vera e propria «scelta». Ho cominciato a scrivere senza sapere che cosa sarebbe dovuto accadere e a chi, e mentre scrivevo mi sono rapidamente resa conto che il mio protagonista era un uomo, che era molto più vecchio di me e che era estremamente solo. Dopo qualche pagina è divenuto chiaro anche che la storia non si sviluppava nel presente – lo si capiva dal linguaggio e dall’ambientazione – e così ho deciso per la Francia negli anni quaranta. Non ho mai avuto difficoltà a mettermi nei panni del dottore. Forse nel profondo di me stessa nascondo l’anima di un vecchio. Ho inoltre un padre ottantenne e un buon amico che si avvicina ai settanta. Questo probabilmente mi ha aiutato a immaginare le sensazioni di un corpo che sta invecchiando, da una prospettiva fenomenologica.

Nel libro, i personaggi sono come tante linee parallele che, a un certo punto, fatalmente si incrociano. Cos’è che fa scattare questo cambiamento in senso vitale?
È un’immagine a cui non avevo pensato. Credo che le strade dei diversi personaggi si incrocino nel momento in cui subentra per loro la necessità di un aiuto, nel momento in cui le persone hanno bisogno di essere salvate attraverso una relazione forte con gli altri. Tutti i personaggi del romanzo vivono una sorta di crisi che va in crescendo e, alla fine, grazie a essa sono in grado di cambiare. Il dottore: io lo vedo in realtà come un uomo in costante difficoltà esistenziale e la sua ansia aumenta nel corso del libro, fino al culmine. Quando la sua segretaria non si presenta più al lavoro e la giovane Agathe comincia a destarlo emotivamente, quest’uomo in crisi viene spinto ancora oltre. Trovarsi suo malgrado a entrare nella vita della sua vecchia segretaria lo aiuta a essere onesto anche con Agathe a proposito della propria sofferenza e ciò spinge quest’ultima, come paziente, a prendere coraggio e così a fidarsi di lui e rivelargli l’ultimo tassello della sua terribile storia. Entrare personalmente nella vita degli altri, e non soltanto rimanere a osservarla dalla poltrona dell’analista, permette al protagonista di capire che esiste una cosa peggiore della morte, cioè il non aver lasciato traccia nel cuore di nessuno.

Agathe è il personaggio che dà il titolo al romanzo: è giovane, è una paziente atipica perché accetta di entrare in analisi sapendo che il suo terapeuta a breve andrà in pensione, pone domande personali, è sfacciata. Eppure si ha l’impressione che tutto ciò potrebbe non bastare a giustificare il cambiamento che avviene nel protagonista dopo oltre quarant’anni di esperienza. Sembra cheà Agathe senta o addirittura sappia qualcosa di cui lui stesso non è consapevole…
Credo sia corretto dire che non è propriamente Agathe a «smuovere» il dottore. In questo senso, le figure chiave sono più che altro la segretaria e il marito malato di lei: il terapeuta si trova costretto a parlare con una persona «reale», al di fuori del set analitico, e così deve mettersi lui stesso in gioco come uomo e non come medico, deve parlare della vita, della morte e dell’amore con un suo coetaneo, è costretto a confrontarsi con la sua disperazione. Agathe è una donna sagace e determinata, sa ciò che vuole e parla apertamente. Ha sentito da un amico che il dottore la curerà con il dialogo e non con i farmaci, come tutti i medici che ha conosciuto fino ad allora. E credo che la sua pretesa in qualche modo sia comprensibile: un dialogo comporta la messa in gioco di entrambi gli interlocutori.

Perché il protagonista del suo romanzo vive la solitudine con un senso di colpa?
Credo sia una sorta di circolo vizioso. Forse lo psicoanalista non è mai stato molto sicuro di sé e delle parole che dice ai suoi pazienti. Ha il timore costante di essere considerato un impostore, uno psichiatra incapace, una persona cattiva che non merita amore, e questa probabilmente è una delle ragioni principali per cui non ha permesso a nessuno di avvicinarsi davvero a lui. Quando si vive da soli per tanti anni e non si autorizza nessuno a stringere una relazione amorosa, non si ottiene mai quell’approvazione che viene dall’essere visti per come si è e dall’essere apprezzati per se stessi. E questo non può che acutizzare il senso di solitudine e, forse, provocare anche vergogna.

C’è qualche modello letterario a cui si è ispirata nello scrivere questo romanzo?
È buffo, qualche recensore, in Danimarca, ha notato diversi riferimenti alla letteratura esistenzialista. In realtà ho letto soltanto Lo straniero di Camus e qualche saggio di psicologia di autori come Sløk (Johannes ndr) e Yalom: non ho ancora letto nulla – come il protagonista di L’ora di Agathe – di Sartre, per esempio. Ho letto qualche pagina de La nausea ed effettivamente ci sono diversi punti di contatto con il mio romanzo. Sicuramente ci sono molti libri, autori, film da cui ho tratto ispirazione, ma non ne sono consapevole. Stanno da qualche parte dentro di me e vi attingo inconsciamente. Inoltre devo confessare che il mio compagno è un filosofo, il nostro cane si chiama Camus, quindi in un certo senso sono continuamente circondata da vibrazioni «esistenzialiste».

Quali sono, secondo lei, gli elementi che hanno fatto apprezzare così tanto il suo romanzo dal pubblico?
Bella domanda… me lo chiedo anch’io. Credo si tratti di una combinazione di elementi: il fatto che ponga domande perenni e fondamentali, come per esempio il senso della vita. In realtà, il romanzo è un po’ impegnativo per via dei temi che tratta, come la tristezza, l’angoscia e la solitudine provate dal protagonista. Allo stesso tempo, ho cercato di dargli anche un pizzico di umorismo e di lasciar penetrare della speranza, un messaggio positivo con il quale i lettori si dovranno confrontare.

*

SCHEDA: Non solo incontri  di letteratura

Al Teatro Franco Parenti di Milano (da oggi al 24 febbraio) si terrà la quinta edizione de «I Boreali Nordic Festival», dedicato alla letteratura, musica, cinema e gastronomia del nord Europa (ideato e organizzato da Iperborea). Dopo le giornate milanesi, la rassegna raggiungerà anche altre città italiane: Venezia, Firenze, Torino, Cagliari, Trento e Rovereto, Bologna e Matera e all’estero (Cernobbio / Lugano). Fra gli ospiti, lo scrittore svedese Björn Larsson («La lettera di Gertrud»), l’esordiente Leonardo Piccione («Il libro dei vulcani d’Islanda»); Elisabeth Åsbrink («1947»), Gert Nygårdshaug («L’amuleto»); Anne Cathrine Bomann («L’ora di Agathe»; Erika Fatland («Soviestistan»); Erlend Loe («Naif.Super»). Non solo letteratura, ma anche incontri d’attualità, come il «paradosso nordico» sulla discriminazione di genere.