«Ma se in questo gran parlare di patriarcato il femminismo si fosse scordato dei padri? La delusione nei confronti dei padri è stata sempre più privatizzata nel discorso femminista; i cosiddetti daddy sono stati relegati al regno dei problemi personali»: lo scrive Katherine Angel in Bella di papà (Blackie Edizioni, pp. 118, euro 17, con la traduzione di Veronica Raimo e Alice Spano). In questa disamina del ruolo del padre nella società contemporanea, effettuata soprattutto a partire dall’analisi di film e serie televisive, lette attraverso la lente della psicanalisi, la docente e ricercatrice britannica disegna il ruolo archetipico del padre, fino all’epoca del #metoo.

Le macro-categorie in cui li distingue sono: «i padri molto civilizzati» che aiutano nella gestione domestica e nell’educazione dei figli e quelli «bruti», che si caratterizzano per la gelosia, la violenza e la possessività. Questa macro distinzione suggerisce Angel è però soltanto di facciata: anche il padre che sembra il più amorevole del mondo, come per esempio il protagonista del film Il padre della sposa, spinge «a fantasticare sull’amore incestuoso. Una volta che la figlia prende le distanze da lui per un altro uomo, è il suo potere sessuale a essere messo in questione».

IL LEGAME col padre morto della protagonista del romanzo d’esordio di Carmen Barbieri Cercando il mio nome per Feltrinelli (pp. 224, euro 16.50) è in effetti amoroso e sconfinato, nonché l’unica relazione che dà senso alla vita di Anna. Quando suo padre muore, infatti, la ragazza per mantenersi a Roma dove lui l’ha convinta o costretta a trasferirsi, inizia a fare la ballerina in un night e infine a prostituirsi. Il romanzo che racconta con grande efficacia la mostruosità del presente di Anna che, orba della luce dei suoi occhi, conduce un’esistenza aberrante, consta anche di parti relative al passato della ragazza. La vita quando suo padre era ancora vivo era serena, normale, perché la presenza di lui rendeva possibile per Anna di godere dell’affetto di Cristina e Alfredo, compagni di scuola, della nonna, della madre. Quando il genitore muore, non esiste altro che l’inferno in cui si è fatta precipitare da un parroco, tale «prete nero». Nel percorso che permette alla ragazza di ritornare alla luce, che è anche l’inizio dell’elaborazione del lutto, Barbieri scrive: «quando Francesco d’Assisi venne al mondo, quando il grembo materno lo partorì, quel giorno, in quel momento, Pietro di Bernardone non c’era. Francesco è nato in assenza del padre».

I padri lontani è il titolo del libro di Marina Jarre edito da Bompiani, con la prefazione di Marta Barone (pp. 192, euro 12), che raccoglie alcuni testi della grande scrittrice nata a Riga, che si trasferì in Italia a dodici anni.
Nella novella Il cerchio di luce, Jarre sa raccontare il suo sguardo bambino, la concezione del mondo che aveva quando viveva in Lettonia con la famiglia e poi si è trasferita a Torre Pellice con la sorella, in seguito al divorzio dei suoi: «anche io diventerò adulta, ma non riesco a figurarmelo. Mi preoccupa di crescere tutto a un tratto in una sola notte. Come farò l’indomani a trovare subito i vestiti della lunghezza esatta?». I padri lontani di Jarre sono due: il suo, ucciso nello sterminio degli ebrei di Riga nel 1941 – lei lo scoprirà solo anni dopo – e il padre dei suoi figli, il marito Gianni.

Nei testi di Jarre la lontananza dei padri non viene tematizzata mai in termini di perdita o di dolore, essa è un’assenza vera e come tale non viene nominata. L’autrice racconta la costruzione della propria identità rispetto al suo essere straniera e come questa influenzi il suo approccio alle questioni fondamentali. La religione, per esempio: il padre di Marina è ebreo, i nonni con cui cresce a Torre Pellice sono valdesi: «non ho capito chi sia Gesù Cristo».

È RARO poi il suo racconto del tempo del fascismo, di cui dice l’ambiguità, perché durante la Resistenza i fascisti erano ancora quelle stesse persone familiari, i vicini di casa. Neanche in Come donna si trova l’ombra della rivendicazione rispetto a un marito che inizia ad allontanarsi inesorabilmente già durante la gestazione del terzo figlio. Il racconto si concentra sulla quotidianità della sua vita, su quanta forza sovrumana sia necessaria per tenere in piedi la vita ordinaria di una famiglia.
I due padri, quello insostituibile di Anna e quello evanescente di Marina Jarre sono un’altra dicotomia, come quella tra «prete nero» e «prete bianco» che troviamo in Barbieri. Per comprenderla e superarla, Angel ci ricorda che: «venire a patti con la propria aggressività e con la propria ostilità, perseguire un rapporto spietato rispetto alle nostre origini è un aspetto necessario della sanità».