Fin dal titolo del libro che li ospita gli atti di poesia di Maria Grazia Insinga sono movimenti di deferenza e ribellione alla indicibilità delle cose vaghe e inconsistenti. Siano esse la transumanza delle api o gli ortogrammi delle stelle cadenti. La procedura allusiva investe difatti l’altezza archetipica dello scorrere, il rovesciamento lavico, il moto dei celesti, il flusso polimorfico capace di esondare dal testo (il muoversi fluido della semantica, l’incanalarsi dei grafemi nelle punte sgozzate della vaghezza) nella millimetrica cosmogonia del nulla e dell’intero. Farsi di acqua e di creta, principio e deriva, urto logico degli elementi nella geometria ricompattante della sezione aurea.
Diciamo innanzitutto che ognuna delle cose, delle sostanze, delle consistenze qui sopra nominate, sono dentro i versi di A sciame (Arcipelago Itaca edizioni, pp. 92, euro 15, prefazione di Giuseppe Martella). Succede così che per poterne dire, risulta necessario predisporsi allo speciale stadio della mistica delle origini, all’atomismo dei quattro elementi, col medesimo spirito con cui Insinga mappa la sua topografia dell’opera, aperta tra celeste e terra, disseminandola di scafi e anfratti.

Il viaggio cosmogonico inizia nei pressi dei titoli delle sezioni: «La stanza dell’acqua»; «La testa che parla»; «Nel nome del giglio». La prima più gnostica e sciamanica, un mondo di limiti eternamente preda dell’infinito («il nulla non finito / non di solo niente / non si può dire due volte / che è già qualcosa») simmetricamente immerso nell’ambiguità semantica che l’autrice trasfonde nel livello del lessico fin dal primo soffio di poesia dove, ad esempio, galleggia un «eone», tre sillabe in quattro grafemi, la parola al limite ultimo della divisibilità: uno spazio temporale sovraordinato all’era geologica («l’episodio pluviale carnico / nella grande provincia ignea / l’estinzione per grazia stromboliana / che rifà la scala temporale geologica») ma anche un essere gnostico intermedio tra uomo e Dio («il santuario all’altezza delle isole / è quasi mare e l’ignoto all’altezza / del noto escluso da tutte le lingue»). Quando poi l’immagine «vaga, indistinta, incompleta» giunge alla crosta dura della morfosintassi, il periplo della vaghezza è compiuto dato che a questo livello essa colpisce i paradigmi di genere e di numero, alludendo (molte tracce lo suggeriscono) nel primo caso al trascendere la sessualità le entità divine, nel secondo alla dialettica tra Uno e Plurimo.

L’ambiguità del genere agisce in più parti (non poche volte con l’accordo di prossimità: «fatela finita: questa è un continente») fino alla sua vetta di poeticità se investe anche il soggetto destinandolo così all’indeterminatezza: «non più di due minuti fa / ha finito il mondo e ammuta / di fronte a lei e al suo farsi muto». Ciò accade nell’area di transizione tra la seconda parte del libro, quella più materica, abitata da crani, pesci, bitume, mezzelune, e l’ultima, «Nel nome del giglio», dove il tema della (in)dicibilità degli enti e delle sostanze raggiunge vette di esplicitezza quasi narrativa: «vieni che ti insulto / per fare parola prima che sia / tu stessa parola».
Come quando l’autrice nel viaggio cosmico del verso deposita le opposizioni lessicali nelle aree alta e bassa della strofa: la prima, su, del lessico tecnico-scientifico e cosmogonico; l’altra, giù, della parola comune e di alto uso fino all’ammonizione. Un’altra caratteristica di questi versi sui quali molto sarà ancora necessario dire.