Lo spazio come supporto teoretico per l’intelligibilità del mondo contemporaneo: questo è il punto di partenza per la riflessione di Maurice Mbikayi – classe 1974, nato a Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo, vive e lavora a Cape Town, Sudafrica. In occasione della sua prima personale in Italia – Masks of Heteropia (a cura di Silvia Cirelli) – da Officine dell’Immagine a Milano (fino al 28 luglio), che aveva già presentato alcuni suoi lavori nella collettiva We call it Africa (2017), l’artista dichiara l’autorevolezza di Michel Foucault, autore tra l’altro di Utopie. Eterotopie (1966). È della fine degli anni Sessanta un concetto esemplare del filosofo francese – «viviamo nell’epoca del simultaneo, della giustapposizione,del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso. Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa» – utile anche per analizzare il lavoro di Mbikayi.
Con l’impiego di materiali di riciclo, incorporando e assemblando e-waste (rifiuti elettronici) – diventati la sua cifra stilistica – con molti altri materiali come legno, vetroresina, carta, tessuto, l’artista cavalca la contemporaneità realizzando le sue opere (sculture, installazioni, fotografie, video e performance), concependole come espressione di una pluridimensionalità dello spazio.

Partiamo dal titolo della mostra – «Masks of Heterotopia» – che è una citazione di Foucault… 

Mi ispiro molto a Michel Foucault per questo concetto dell’eterotopia in cui parla di giustapposizione di spazi. Nel caso della mostra la giustapposizione è il contrario di utopia che, come sappiamo, presenta una realtà onirica. È un posto che esiste, ma è anche fatto di strati di realtà non esistenti, come in uno specchio in cui vediamo riflessi noi stessi. Quell’immagine riflessa è reale – perché esistiamo – ma nello stesso tempo effimera. La stessa cosa avviene quando parliamo al telefono, dove il dialogo si svolge in uno spazio quasi etereo che, in realtà, non esiste. Oppure quando andiamo a teatro a vedere uno spettacolo che è una finzione. Questo tipo di giustapposizione tra strati reali e di finzione è presente anche a Kinshasa, da dove provengo. Una città assolutamente caotica, una città di promesse. Promesse fatte dai politici che avrebbero costruito infrastrutture e che non sono state mantenute. Sì, uno sviluppo c’è stato: si sono costruite infrastrutture, ma non è quello che gli abitanti si aspettavano. I ricchi si sono arricchiti sempre più – come sempre – e il divario tra classi abbienti e poveri è aumentato vertiginosamente. Un arricchimento avvenuto grazie alle miniere e alle multinazionali. Ecco, l’esperienza di Kinshasa con la giustapposizione delle sue realtà così differenti, è molto presente in questo concetto di eterotopia. Anche il modo in cui si vestono le persone, con il corpo che diventa soggetto di architettura e arte, è uno spazio di discussione-

Qual è stata la sua esperienza rispetto al movimento congolese dei «sapeur» (gli «elegantoni»), ispirato al dandismo europeo, fenomeno sociale che si esprime attraverso la moda, a cui anche il fotografo Daniele Tamagni ha dedicato il libro «Gentlemen of Bacongo» (2009)?

La mia esperienza nell’uso del corpo è legata ai materiali. Avevo un computer di seconda mano che portavo spesso in un centro di assistenza. Ogni volta che ci andavo vedevo una montagna di vecchi pc accatastati che non venivano più usati, così ho chiesto al proprietario se potevo prenderli. Sono andato anche in altri negozi accumulandone altri. In realtà, prima di frequentare il master alla Michaelis School of Fine Art di Cape Town, nel 2013, non sapevo come avrei potuto utilizzare questo materiale. Avevo fatto solo delle ricerche dal punto di vista chimico sui materiali, soprattutto sui minerali contenuti in quei dispositivi elettronici. Poi, durante il master, il mio tutor mi consigliò di impiegare il mio corpo. Non avevo mai studiato l’arte performativa, avevo solo delle nozioni sulla fotografia. Lui mi suggerì di utilizzarla come estensione del mio lavoro. Così ho iniziato realizzando l’opera – facevo costumi che indossavo o venivano indossati da altri – che poi fotografavo e mettevo l’una accanto all’altra. La foto è una sorta di proiezione dell’opera d’arte, così il pubblico ha anche un altro mezzo per interpretarla. Nell’uso del mio corpo, comunque, non parlo di me stesso ma di una terza persona.

Ha citato il master in Sudafrica, dove lei vive attualmente: pensa che la distanza dal suo paese d’origine le abbia permesso di mettere a fuoco con più lucidità il pensiero critico nei confronti della realtà da cui proviene?

Sì. Il mio paese non è democratico e l’arte non è supportata dal governo. A Kinshasa avevo frequentato l’Accademia di belle arti – mi sono formato come pittore e designer – ma la vita dell’artista è molto difficile, per questo nel 2005 ho deciso di andare in Sudafrica. Ma non è stato facile. All’inizio facevo anche altri mestieri, poi ho deciso di fare l’artista a tempo pieno, completando il mio percorso di studi con il master, un’esperienza che è stata fondamentale per varie ragioni.

Dal punto di vista formale lei cita il lavoro di Ynka Shonibare, che esplora temi legati all’identità, al colonialismo e post-colonialismo, con i suoi manichini senza testa che indossano costumi d’epoca occidentali realizzati con i cosiddetti «tessuti africani» (wax print)…

Nella preparazione della mia tesi finale per il master bisognava indicare alcuni artisti di riferimento. Nel mio elenco, tra i preferiti, c’erano Ynka Shonibare che utilizza molto la moda, insieme a Meshac Gaba, El Anatsui, Nick Cave e Iké Udé. Shonibare usa tessuti che contengono un paradosso, perché sono stati realizzati dagli olandesi, colonizzatori di Giava e Indonesia, per quel mercato. Gli indonesiani, però, hanno rifiutato l’imposizione di quei tessuti industriali prodotti in Europa che sono finiti nel mercato africano. Esploro anche la visione dell’Africa immaginata come una discarica in cui mandare tutto quello che è scartato dagli altri paesi. In questo mi sono ispirato anche al libro fotografico di Pieter Hugo Permanent Error. Un altro aspetto critico è il riferimento ai bambini che in Congo lavorano non solo nelle fabbriche, ma anche nelle miniere e nelle discariche per smontare i dispositivi elettronici obsoleti, come si può vedere anche nell’opera esposta in questa mostra che s’intitola Mbeka, che vuol dire sacrificio, con il bambino bendato seduto sulla sedia. Il mio lavoro è fatto di diversi strati, ci sono fattori politici, storici, questioni che riguardano l’ambiente, ma ognuno può avere un’impressione diversa.

La maschera, elemento ancestrale della tradizione africana, nella sua opera è associata agli animali…

La presenza degli animali – cani, capre, volpi, lupi… – è legata ai fattori ambientali. Anche gli animali, infatti, sono coinvolti e colpiti dalla crisi ambientale causata dall’inquinamento, il riscaldamento globale e i rifiuti elettronici che non vengono smaltiti nella maniera corretta. Nella performance Voices con l’uomo bendato a cavallo – che ho realizzato per la prima volta nel 2010 per Spier Contemporary a Cape Town – parlo anche di xenofobia e violenza. Prima non ero mai salito su un cavallo. Grazie a quell’occasione ho potuto imparare a fare qualcosa che mi sarebbe piaciuto fare da sempre. È stato bellissimo vincere quella sfida.
Quanto al concetto della maschera sono stato ispirato dal libro Black Skin White Masks di Frantz Fanon. La maschera è un elemento di protezione, può essere positivo e negativo. Nel mio caso il concetto è associato alla tecnologia e alla moda, che spesso rappresentano un connubio. In Africa la moda è spesso descritta come maschera, perché la gente meno abbiente la usa per apparire e sembrare qualcosa di diverso da quello che è. Anche la pelle è una maschera. Per me la maschera è anche lo spazio in cui si genera questa discussione.