Uscito quasi trent’anni fa, il libro di Giacomo Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito è stato da poco ripubblicato in una nuova edizione ampliata (Bollati Boringhieri, pp. 117, euro 16), in un momento in cui la riflessione filosofica, psicologica e scientifica sul tempo, sulla storia e sulla memoria è caratterizzata da una nuova intensità.

COME SI FA a concepire qualcosa come il tempo, se nel momento in cui si cerca di delimitarlo esso è già passato o non è ancora accaduto? Questa è la domanda che comunemente ci si pone e che echeggia un vulgato riferimento a una famosa riflessione di Sant’Agostino. La meditazione temporale del filosofo cristiano, incentrata sull’aporia tra inconcepibilità e esperienza del tempo, in realtà è più stratificata di quanto si possa pensare. E tale da non autorizzare necessariamente, come invece si è fatto di frequente, le due prevalenti e fra loro opposte concezioni del tempo: quella di una durata in cui non ci sarebbero concrezioni e dilatazioni che diversificano il tempo; quella di una successione puntiforme di attimi nella quale il precedente e il successivo finiscono sempre per annientarsi, se vogliono assumere paradossalmente almeno la parvenza di una loro concretezza.

Per Marramao, l’aporia che emerge anche nella concezione agostiniana del tempo non segnala una strada sbagliata. La discrasia tra sentimento misurabile e incommensurabilità concettuale fa parte della natura del tempo. Il tempo è sempre una mescolanza di quello che potremmo definire come non-luogo interiore e spazio esteriore. Una mescolanza analoga al tempo atmosferico, al quale l’autore dedica un’acuta indagine etimologica sulla scorta di Benveniste, che rivela una stringente prossimità con la temporalità fisica e psichica.

Una delle idee guida della riflessione di Marramao è quella di affrontare il tempo attraverso le categorie delle spazio. Tale caratterizzazione spaziale del tempo era già presente nella filosofia antica.

FRA GLI ALTRI FILOSOFI, oltre a Platone, si sofferma sulla spazializzazione del tempo nella Fisica di Aristotele e in particolare sull’idea che i numeri, attraverso i quali quantifichiamo il tempo, non sono limiti che pertengono esclusivamente a quello che circoscrivono e che per questo renderebbero inconcepibile il passaggio da una delimitazione all’altra.
Il numero delimita, ma resta anche indipendente da ciò che delimita. Si sporge fuori al dopo potendo sia rimanere attaccato sia staccarsi dal prima, in «un flusso che non è affatto indeterminato, ma che ha in sé una direzione dal futuro al passato».

Il ritorno al passato da ciò che si sporge al futuro è un misto di consueto e straniante, perché fa convergere ciò non è noto nel noto, ciò che è misurato in ciò che misura. È a questo punto che fra i riferimenti moderni convocati da Marramao, quali mezzi per pensare il tempo, acquista particolare importanza quello della mescolanza tra familiare e estraneo che è il «perturbante» di Freud. La sensazione contemporanea di stallo e dinamica in avanti ma direzionata indietro che è il perturbante, fra le altre cose, può essere considerata la modalità più potente e pregnante sulla quale si spuntano le due frecce del sentimento del tempo che hanno dominato e dominano la modernità.

DA UN LATO la durata neutralizzante che non passa, figurata della noia e sviscerata magistralmente da Baudelaire. Dall’altro lato, oggi il più attuale, il tempo da «ipertrofia dell’aspettativa», cioè l’ansiogena e fagocitante dimensione in cui viviamo «come se ogni momento fosse il prossimo». Di questa dimensione, forse il più profetico interprete è stato Kafka. Lo scrittore antesignano di quella che possiamo definire, sulla scorta della riflessione di Marramao, singolarità storica.