Avevo 16 anni e l’edicola era dentro una minuscola cartoleria dove da piccolo compravo i pennini per scrivere con quell’inchiostro nero che macchiava continuamente le mani. Alle 7 e mezzo erano pronte le 20 copie del manifesto da diffondere davanti alla scuola, l’istituto tecnico agrario Serpieri alla periferia di Bologna. Le vendevamo quasi tutte nonostante un folta presenza di fascistelli che non gradivano affatto il “quotidiano comunista”.

4 pagine in tutto, 50 lire a copia che non solo venivano lette ma pure discusse pezzo per pezzo e conservate per incontri o assemblee. Come i primissimi numeri in cui cominciavano a comparire i pezzi del caro amico Giovanni Forti sui diritti delle persone omosessuali. In Romagna i compagni del manifesto, quando il giornale coincideva con l’omonimo movimento politico, avevano abbonato numerosi bar delle case del popolo. Ma quando c’erano i pezzi di Giovanni Forti chissà perché c’erano sempre disguidi postali e il giornale spariva dai bar.

Oggi sembra impossibile che un giornale di sinistra possa far vergognare i propri lettori, ma eravamo negli anni ’70 e già sembrava sufficientemente rivoluzionario per la classe operaia parlare di divorzio e aborto al punto che a sinistra erano in pochi a credere che la società fosse così cambiata da vincere addirittura un referendum.

Oggi mentre faccio l’abbonamento on line al giornale spero che si possa immaginare una stagione di rivoluzione civile come in quegli anni strepitosi. Per i quali rivendico il diritto alla nostalgia. In fin dei conti da rivoluzionari non siamo diventati affatto pompieri, basta ascoltare ogni giorno un Alfano qualsiasi per avere la certezza che siamo ancora i ragazzi di 16 anni che diffondono il manifesto.