Sergio Bogazzi vive a Roma ed è un esperto di informatica della Fao, con esperienze accumulate in mezzo mondo. Per hobby, raccoglie dati sulla sua famiglia: registra e analizza parametri fisiologici, attività fisica, ore di sonno, abitudini quotidiane sue, di sua moglie e delle loro tre figlie. Così ha scoperto quali sono i sintomi più fastidiosi della sua allergia, i periodi in cui la figlia si ammala più spesso di bronchite o il criterio per scegliere scientificamente il quartiere in cui vivere.

A qualcuno potrebbe ricordare Furio, il personaggio dello storico Bianco, Rosso e Verdone che prima di partire alla volta di Roma telefonava all’Aci per sapere se a una media di 80-85 chilometri orari si sarebbe lasciato alle spalle l’area depressionaria di 982 millibar. Invece, Bogazzi fa parte di una tribù assai più trendy di Furio, quella dei cosiddetti «quantified self». Si tratta di persone che, grazie alle tecnologie digitali, monitorano gli aspetti più vari della propria vita quotidiana e li traducono in dati da analizzare.

IL PRIMO NUCLEO della comunità è nato nel 2009 in California su ispirazione dei futurologi Kevin Kelly e Gary Wolf, fondatori e firme autorevoli della rivista Wired. Da allora, gruppi di appassionati dell’auto-monitoraggio digitale sono sorti in tutto il mondo. L’università olandese di Groningen ospita persino un istituto di ricerca dedicato al tema. Fra circa un mese, i quantified self si incontreranno proprio ad Amsterdam, per la loro conferenza mondiale.
In realtà, dal 2009 ad oggi, la tendenza a trasportare volontariamente sensori che registrano le nostre attività è andata ben oltre la piccola setta di Kelly e Wolf. Merito, o colpa, dei «wearables», dispositivi elettronici indossabili che raccolgono e scambiano dati attraverso la rete. Gli smartphone che abbiamo quasi tutti in tasca, per esempio, raccolgono già un’infinità di informazioni su come trascorriamo il tempo, dai contatti sociali agli spostamenti che effettuiamo. Ma i wearables più in voga sono quelli che vanno al polso: smartwatch e soprattutto braccialetti che fungono anche da misuratori dei dati cardio-circolatori, dell’attività sportiva e delle ore di sonno.

Il prodotto che domina il mercato è il braccialetto FitBit. Rappresenta da solo il 20% del mercato (è al polso di 23 milioni di persone), e genera ricavi per oltre due miliardi di dollari l’anno per l’omonima azienda di San Francisco che lo produce. Chi lo ha comprato spera che, con i propri dati a portata di mano, acquisire e mantenere uno stile di vita sano diventi un gioco. A interessarsi ai wearables, però, non sono solo i consumatori. Anche molte aziende vedono nella diffusione di questi dispositivi un mercato da conquistare. Si tratta soprattutto di quelle attive nei vari settori della sanità privata, dalle compagnie assicurative alle startup e alle corporation dell’informatica.

PER QUANTO RIGUARDA le assicurazioni sanitarie private, l’interesse verso l’auto-monitoraggio dei clienti è spiegato facilmente. Un dispositivo che rileva lo stato fisico dell’assicurato e, in caso di anomalie, consiglia in tempo reale il da farsi, diminuisce notevolmente i rischi per l’assicurato e, ovviamente, anche per l’assicuratore. Un diabetico, ad esempio, può tenere sotto controllo il glucosio nel proprio sangue ed evitare i pericolosi picchi. Diverse società assicurative, come il gigante UnitedHealthCare, già oggi offrono sconti a clienti che indossano braccialetti elettronici. Inoltre, i dati a disposizione consentono alle compagnie di disegnare sempre più precisamente il profilo dei propri utenti, tarando le tariffe in modo preciso sulla base del rischio reale.
Qualcosa di analogo sta già succedendo con le automobili, per le quali le società assicurative incentivano l’installazione di trasmettitori Gps che misurino gli spostamenti reali dei veicoli. Ma al di là delle assicurazioni, i dispositivi indossabili rischiano di contribuire a un cambiamento epocale dei sistemi sanitari pubblici e privati.

L’INVECCHIAMENTO della popolazione, infatti, sta aumentando l’incidenza delle malattie croniche che comportano un carico di lavoro sempre più gravoso. Gli aggeggi che permettono di misurare i parametri biologici più importanti e trasmetterli in rete possono minimizzare il ricorso alle visite mediche dirette, limitandole agli interventi più urgenti e importanti.
Allo stesso modo, i dispositivi indossabili forniranno suggerimento in tempo reale agli utenti – anche se difficilmente un robot potrà appagare il bisogno di assistenza che molte persone, soprattutto anziani, soddisfano solo presso il medico di base. Inoltre, grazie alla connessione permanente con la rete, i dati raccolti da questi dispositivi potranno essere analizzati e genereranno nuove conoscenze. È una tendenza in voga in tutto il mondo, e va sotto il nome di «telemedicina».

La «telemedicina», nonostante l’apparenza, non promette solo benefici per i cittadini. Innanzitutto, il tema interessa molto gli amministratori della sanità perché, sperano, permetterà di tagliare ulteriormente i finanziamenti pubblici destinati alla salute. In un futuro prossimo, gli esami potranno essere svolti all’insaputa degli assistiti e trasmessi via Internet. Inoltre, essa apre scenari del tutto inediti sull’uso dei dati personali degli utenti.

PER DARE I RISULTATI sperati, infatti, la telemedicina necessita di infrastrutture tecnologiche efficienti e pervasive, alla portata quasi esclusivamente di grandi aziende private specializzate nell’analisi e nella classificazione degli utenti. Che di dati sono ghiottissime.
Il governo italiano ha stretto una partnership con l’Ibm per avviare il suo progetto di sanità 2.0. Il quartier generale, che si chiamerà «Human Technopole», sarà nell’area in cui si è svolto l’Expo di Milano. L’accordo tra Ibm e governo ha destato l’interesse anche del Garante della privacy, poiché l’azienda informatica avrà a disposizione tutte le principali informazioni sanitarie sugli italiani, dal «curriculum» sanitario ai dati sul dna di ciascuno di noi. Per Ibm, è un’ottima occasione per «allenare» Watson Health, il suo sistema di intelligenza artificiale nato per digerire e analizzare enormi quantità di dati sanitari e fornire diagnosi mediche più precise.
Anche un altro colosso della «profilazione», Google, vuole realizzare qualcosa del genere. La sua controllata «Verily», infatti, ha appena lanciato il progetto denominato «Baseline»: diecimila volontari per quattro anni forniranno quotidianamente dati sulla propria salute. Ovviamente, a ognuno dei partecipanti verrà affidato un braccialetto che registri l’attività fisica e i principali parametri cardio-circolatori.

INOLTRE, I VOLONTARI dovranno sottoporsi a test genetici e esami periodici i cui risultati verranno aggregati e analizzati da Google. Lo scopo dichiarato è la raccolta di dati a scopo di ricerca biomedica, ma sull’efficacia reale del progetto vi sono molti dubbi.
I dispositivi indossabili non sono sufficientemente accurati per gli standard sanitari. Si aggiunga che, secondo un’indagine del 2014, il 30% dei «braccialetti» viene abbandonato entro i sei mesi dall’acquisto. Gli utenti che forniranno la maggiore quantità di dati, contribuendo a ridefinire i concetti di salute, malattia, normalità, saranno quelli più perserveranti fino all’ossessione. Non lamentiamoci se, al posto dell’uomo vitruviano, nel cerchio leonardesco dell’armonia perfetta ci troveremo l’ineffabile Furio con il suo borsello.