Comincia la stagione dei festival letterari, delle notti bianche, delle infinite rassegne culturali che nessuna città o cittadina o sperduta borgata rurale sembra si voglia far mancare ogni anno tra la tarda primavera e le prime settimane d’autunno. E perché no, in fondo? Anche se tendono ad assomigliarsi tutte quante, anche se non hanno il minimo impatto sulla diffusione della lettura, anche se sfortunatamente avvalorano l’idea che l’incontro fisico con l’autore o l’autrice possa aggiungere qualcosa al libro che è stato scritto, queste manifestazioni possono riservare delle sorprese piacevoli.

«Può succedervi qualcosa di davvero potente e interessante, come sempre può succedere quando le persone si incontrano in carne e ossa e si guardano negli occhi», ha detto tempo fa a questo proposito il critico Gianluigi Simonetti, pronto tuttavia ad aggiungere che si tratta di miracoli per nulla scontati («molto dipende da chi organizza i festival e da chi vi partecipa») e che lo scoccare di una scintilla è «più l’eccezione che la regola».
Non possiamo naturalmente prevedere come andranno le cose alla diciannovesima edizione de La Noche de los Libros (così si intitola la celebrazione madrilena della Giornata Internazionale del Libro) fissata per il 19 aprile, se non che il programma sciorina ben 530 incontri fra dibattiti, attività per bambini e laboratori, con la partecipazione di più di trecento autori, 139 istituzioni e spazi culturali, 127 librerie e 116 biblioteche. Di certo però una scintilla, e anzi qualcosa di più, è scoccata lunedì alla presentazione della kermesse, quando ha preso la parola lo scrittore Servando Rocha.

Noto in Spagna come attivista politico e come editore (la sua sigla si chiama Felguera) oltre che per i suoi romanzi e i suoi saggi dedicati perlopiù alle controculture europee e americane, Rocha sarà fra coloro che partecipano alla Noche de los Libros, ma questo non gli ha impedito di dire due o tre cose che di rado, perlomeno in Italia, si sentono in occasioni ufficiali di questo tipo. In particolare, a proposito della «casa per sempre» cui è intitolata la manifestazione di quest’anno (anzi: «le tante case che abitiamo: il pianeta, la natura, il corpo, i nostri pensieri o la città», per citare l’assessore alla cultura della Comunidad di Madrid, Mariano de Paco), Rocha ha ricordato che «a poco servono i libri se non si ha una casa», e che «i libri sono scomparsi nei traslochi forzati, a causa del terrorismo immobiliare benedetto e tollerato da chi governa questa città».

Oggi a Madrid, ha detto ancora lo scrittore, «l’unico genere letterario possibile è la narrativa horror. Storie di fantasmi e di case che non sono più abitate. I fantasmi ormai sono così tanti che formano un esercito… centinaia di persone sfrattate ed espulse dalle loro case, rimaste senza una stanza tutta per loro».
Come abbia reagito Isabel Díaz Ayuso, presidente della Comunidad di Madrid dal 2019, promotrice di quelli che Rocha ha definito «i protocolli della vergogna», non sappiamo, ma qualche effetto le parole dello scrittore dovrebbero averlo avuto. O perlomeno lo auspica il critico Ignacio Echevarría che in un articolo sulla rivista online contexto intitolato Sabotaje, immagina con divertimento l’atmosfera negli uffici della Consejería de Cultura della Comunidad madrilena all’indomani dell’intervento di Rocha. Che si possano vedere presto cambiamenti, è purtroppo improbabile, e tuttavia, come non dare ragione a Echevarría, quando ricorda che «no, né la cultura né i libri sono un partito, ma possono diventare strumenti di resistenza e di lotta, di interrogazione e di riflessione critica»?