All’alba del secolo, il 27 maggio 1902, il ministro degli Interni Giovanni Giolitti inviava un telegramma al ministro della Pubblica istruzione, Nunzio Nasi, un suo rivale all’interno della compagine di governo guidata da Giuseppe Zanardelli.

Lo accusava di aver compiuto “un’infamia”, con l’emanazione di un decreto assurdo e ingiustificato, che alla fine dell’anno scolastico innalzava da sei a sette decimi il voto minimo per essere ammessi all’esame conclusivo degli studi liceali, previsto per il mese di luglio.

Giolitti è attento al problema del consenso, in un’epoca segnata da un parziale allargamento delle basi democratiche dello Stato liberale e da grandi fermenti e conflitti sociali. Nel testo del telegramma inviato a Nasi, conservato all’Archivio centrale dello Stato, Giolitti scrive una dura reprimenda. Poche parole che vanno dritte al dunque: “Non è lecito turbare in questo modo le famiglie”, facendo seguire una minaccia: “Ti avverto che non intendo far parte di governo che commette simili pazzie”.

Lo statista piemontese scrive poi subito dopo a Zanardelli per chiedere un suo diretto intervento: “la cosa è apparsa a tutti enorme perché a fin d’anno si alterano le norme che ressero tutto l’anno gli studi. Per parte mia trovo che è cosa da pazzi suscitare così giustificato malcontento. Credo bene avvisartene perché tu possa provvedere ad evitare simile stravaganza che avrebbe come conseguenza gravissimo malcontento”. La documentazione che segue lascia intendere che il decreto fu immediatamente ritirato.

Riletto oggi a distanza di più di un secolo l’episodio assume una valenza quasi paradigmatica, facendo riflettere su quanto antica sia la tendenza dei governi italiani a intervenire sulla scuola in modo spesso illogico, frettoloso e superficiale. L’ultimo motivo di malcontento è oggi, ancora una volta, la riforma dell’esame di Stato, già prevista dalla Buona scuola e adesso messa in atto dal ministero guidato da Bussetti. Le prime e parziali istruzioni operative sul nuovo esame sono state diffuse ad anno scolastico già iniziato, creando in tutti i licei italiani un clima di incertezza, e generando comprensibili ansie non solo fra gli studenti, ma anche tra i docenti, chiamati a interpretare le indicazioni del Ministero, spesso poco chiare e contraddittorie.

Lasciano perplessi la marginalizzazione della storia come disciplina e la procedura prevista per la prova orale, che dovrebbe iniziare con il sorteggio di materiali preparati dalla commissione, in una modalità da telequiz. Ma al di là del merito dei recenti cambiamenti esiste a monte un problema ancora più generale e di lungo periodo, ovvero l’incapacità della gran parte dei governi di realizzare riforme scolastiche ben meditate, organiche, razionali e introdotte con la dovuta gradualità.

Nella scuola italiana, non certo da oggi, le modifiche alla normativa si sono susseguite con una rapidità eccessiva, frutto di un’ossessione riformatrice che si potrebbe riassumere, mutandone il significato originario, nel famoso motto del marxista revisionista Bernstein: “Il fine è nulla, il movimento è tutto”.

Non c’è ambito immune dalla girandola: dai programmi di studio alle modalità di esame, dal sistema di valutazione al meccanismo di reclutamento degli insegnanti, dalla denominazione delle discipline alle ore settimanali a esse dedicate.

Indipendentemente dal contenuto dei singoli cambiamenti, è evidente che un mutamento continuo e spesso fine a se stesso delle regole del gioco finisce per danneggiare la didattica, il lavoro degli insegnanti e le prospettive di apprendimento degli studenti, come anche la stessa credibilità della pubblica istruzione. Più che i maldestri aggiustamenti dell’ordinamento scolastico , servirebbero altri provvedimenti: il numero di alunni per classe, le risorse per stipendi e aggiornamento dei docenti, investimenti nell’edilizia, un ammodernamento delle infrastrutture digitali, interventi per fare delle scuole, specialmente nelle aree periferiche delle città e del Paese, un presidio di democrazia.