«Balzac, nello scritto famoso che rivelò la Chartreuse, intraprese per primo, con quella ricerca, il gioco delle congetture sull’identità dei personaggi del romanzo, che gli erano apparsi così veri da presupporre una loro diretta derivazione da viventi modelli; e come chi, dinanzi a una statua in cui sembri palpitare la vita, pensi, dimenticando il potere dell’arte, a un calco, egli credette di poter tra l’altro riconoscere, come in ritratti, nel conte Mosca Metternich, nella Sanseverina la principessa di Belgioioso». Quest’asserzione, tratta da L’idea della Chartreuse, contenente una serie di magistrali saggi stendhaliani di Luigi Magnani, può idealmente introdurre il volume di Honoré de Balzac Studi su Stendhal e La Certosa di Parma con la risposta di Stendhal, ben curato da Pino di Branco (La Vita Felice, testo francese a fronte, pp. 220, € 13,50). Si tratta del lungo saggio dedicato al celebre romanzo stendhaliano, apparso nel terzo numero della «Revue Parisienne», la rivista politico-letteraria diretta e quasi interamente redatta dall’autore del Père Goriot. Tale scritto, apparso il 25 settembre 1840, a distanza di oltre un anno dalla pubblicazione del romanzo di Stendhal, composto di getto nell’arco di cinquantadue giorni, si configura come fondamentale per la fortuna dello stesso, in quanto l’autore di Le Rouge et le noir non aveva goduto di particolari riscontri da parte di pubblico e critica (e in vita non ne ebbe mai, avendone piena consapevolezza: «Pensavo di non essere letto prima del 1880»).
Il testo era stato presentato in italiano solo nel 1958 nel volumetto Feltrinelli Scritti critici, a cura di Mario Bonfantini, che parlava di un saggio «più citato che letto»: «Balzac ha sfalsato un poco il significato dell’opera, o meglio non ne ha inteso appieno il sovrano equilibrio poetico, mettendo troppo in rilievo la parte “politica” ed esagerandone il valore relativo e assoluto».
Fin da subito Balzac parla di capolavoro: «La Chartreuse de Parme è, nella nostra epoca e fino ad ora, ai miei occhi, il capolavoro della Letteratura delle Idee e Monsieur Beyle vi ha saputo fare delle concessioni alle altre scuole che le persone intelligenti possono accettare e che sono soddisfacenti per entrambi i campi». Viene contrapposta la Letteratura delle Idee, che si contraddistingue per «naturalezza» e «acutezza d’osservazione», alla Letteratura delle Immagini, corrispondente al romanticismo e «caratterizzata dal lirismo, dall’epopea». Nella prima scuola figurano, un po’ arbitrariamente, Musset, Mérimée, Béranger, Karr e Nodier mentre nell’altra Balzac cita, oltre al «padrino di battesimo» Chateaubriand, Hugo, Lamartine, gli «imitatori» Gautier, Sainte-Beuve e il Vigny poeta. Vi sono poi degli autori che riescono a condensare le caratteristiche di entrambe le tendenze, ovverosia quelli che confluiscono nell’Eclettismo letterario, il cui scopo è «rappresentare il mondo così com’è: le immagini e le idee, l’idea nell’immagine o l’immagine nell’idea, il movimento e il sogno». Un nome? Quello dell’amatissimo Walter Scott, aborrito invece da Stendhal.
Dopo aver salutato il romanzo in maniera entusiastica e sanguigna («È il fuoco nascosto dentro la selce»), Balzac si avventura nella riscrittura dello stesso, condensando trama intricata e presentazione di innumerevoli personaggi nell’arco di uno svariato numero di pagine. Una curiosa Chartreuse rifatta da Balzac, anche se neppure un narratore d’ingegno come lui riesce nell’impresa di riportare un romanzo così articolato, contraddistinto da continui coups de théâtre e riferimenti di taglio storico (vedi l’esperienza avvilente di Fabrizio del Dongo a Waterloo che Balzac consiglia di riformulare) senza pagarne irrimediabilmente lo scotto. Il lettore si trova di fronte un resoconto farraginoso, a tratti poco comprensibile, come risacca che disponga irregolarmente le scorie dell’abisso dopo una bufera. Troppi nomi, troppi avvenimenti concentrati in uno spazio non adeguato, con la pretesa oltretutto di decifrare l’identità storica nascosta dietro un tal personaggio o comprendere la fonte degli eventi descritti.
L’esegesi di Balzac si fa più calzante quando affronta il tema della città, rivendicando qualche analogia con lo studio allestito un secolo dopo da Luigi Foscolo Benedetto La Parma di Stendhal (Sansoni, 1950) dove si mette a fuoco l’italianismo dello scrittore (si veda anche Stendhal e il mito dell’Italia di Michel Crouzet, il Mulino, 1991) e l’aspetto fantastico insito nella Parma da lui descritta. Per primo Balzac avanza l’ipotesi che questa città potesse identificarsi con Modena (Modena città della Chartreuse si intitola un celebre libello di Delfini): «Allo stesso modo, lo stato di Parma e il celebre Ernesto IV mi sembra che possano essere il principe di Modena e il suo ducato». Sappiamo che la scintilla da cui scaturisce il romanzo era il ritrovamento del manoscritto L’origine delle grandezze della famiglia Farnese in cui viene raccontata la «cronaca» rinascimentale e per molti aspetti fantasiosa, di Alessandro, futuro papa Paolo III e alter ego di Fabrizio. Sulla copia Stendhal annota la famosa frase: «To make of this sketch a romanzetto» (Valéry parlò, a proposito di questo mistilinguismo ante litteram, di «sembianza di crittografia»). A tale manoscritto si devono, oltre alla figura del giovane protagonista, della zia protettrice e del suo integerrimo amante, il patronimico Clelia, l’episodio della prigionia e dell’evasione di Fabrizio, nonché la trasposizione di Castel Sant’Angelo in quella del carcere parmense.
Al termine di questa lunga dissertazione, dopo essersi lanciato in lodi sperticate e aver definito Stendhal un vero e proprio genio, Balzac osserva, in maniera a dir poco sconcertante: «Il punto debole di quest’opera è lo stile, inteso come modo di accostare le parole, questo perché la frase è sostenuta da un pensiero eminentemente francese. Gli errori che Monsieur Beyle commette sono solo grammaticali: egli è sciatto, scorretto come lo sono gli scrittori del secolo XVII. Le citazioni che ho fatto dimostrano a che specie di errori indulge. Alle volte i tempi dei verbi non sono in accordo, qualche volta il verbo è assente; alle volte mette dei c’è o dei che, che stancano il lettore, e allo spirito fanno l’effetto di un viaggio in una carrozza traballante su una strada di Francia. I suoi errori alquanto grossolani denunciano un difetto di lavoro». Tale critica indispettisce il pur appagato Stendhal che tenta di giustificarsi nelle tre stesure della sua risposta (ma non si capisce il criterio con il quale i termini che figurano in corsivo nell’originale vengano volti dal curatore ora in grassetto ora sottolineati: non era preferibile uniformare?). Stendhal si ripromette di ridurre certe lungaggini, come consigliato dal suo mentore, e si dichiara avulso dalla lettura dei romanzi coevi e dagli autori a cui fa riferimento Balzac: «Componendo la Chartreuse, per prendere il tono giusto leggevo ogni mattina 2 o 3 pagine del codice civile». Quasi una provocazione, ribadita dal fatto che Stendhal glissa sulla reale identità dei personaggi, compreso Metternich (il quale negò al diplomatico Beyle l’exequatur per il consolato di Trieste), optando per una lettura di fantasia degli stessi: «Le dirò un’assurdità: molti tratti della duchessa Sanseverina sono copiati dal Correggio».
Per quel che concerne le osservazioni balzacchiane sullo «stile vivo, disinvolto, qualche volta scorretto di Monsieur Beyle», Stendhal sostiene: «In definitiva, pur mettendo molti dei suoi gentili elogi in conto alla pietà per un’opera sconosciuta, sono d’accordo su tutto tranne che sullo stile. Non credo che si tratti di eccesso di orgoglio. Per me c’è solo una regola: lo stile non dovrebbe essere troppo piano, troppo semplice. Dal momento che le idee sugli abissi del Cuore sono sconosciute ai nuovi ricchi, ai vanesii, etc. etc., non bisogna esprimerle con troppa chiarezza». Non sembra una dichiarazione di poetica di Joyce?