Che strano, a pensarci, il destino che è toccato a Contessa. Gli antichi lo sapevano bene: gli scritti affidati al pubblico hanno un fato che, dicevano, è esclusivamente il loro, e corre indipendente dall’autore. L’autore ne è talvolta coinvolto e altra volta no. Nel caso del destino di Contessa si può ben dire che ne fu assai più che coinvolto il suo giovane autore, per come fin da principio Contessa si è, dirò così, incaponita a tenerlo stretto a sé, così stretto da costringere quasi in un secondo piano gran parte del resto dell’opera musicale (e poetica) di Paolo Pietrangeli. Opera di invenzione e di felici sviluppi creativi che, dopo Contessa (Pietrangeli nel 1966, quando la compose, aveva vent’un’anni), nel corso dei decenni è cresciuta ed ha toccato le sue ‘perfezioni’, che pongono Pietrangeli tra i primi autori di canzoni italiani di assoluto rilievo.

Dunque Contessa, quelle parole e quella musica che, per energia propria, si avviano in un loro inarrestabile procedere. Del resto, è lo stesso Pietrangeli che ce ne reca una vivida testimonianza. Si ricorda di quel giorno allorché «poco più che ventenne durante una manifestazione a Pisa nel 1968 quando, lungo il corteo, qualcuno incominciò a intonare Contessa e il coro divenne così generale e così assordante da costringermi, commosso, ai lati della strada a guardare incredulo tutte quelle ragazze e quei ragazzi che sfilavano cantando una canzone che credevo di conoscere solo io e poche altre persone».

Sì, perché Contessa il suo destino l’ha trovato nei cortei, come trovi nel tuo gemello il volto che più ti somiglia. Nel passo di quei giovani, vorrei dire, nel ritmo delle allegre corse, nel farsi rimbombo le centinaia di voci spiegate a cercare un esaltante unisono. Un destino prorompente per essersi quel canto insinuato allora nell’incipiente ‘movimento’ a partecipare, a manifestare. ‘Movimento’ (suggerisco qui di tener presente la caratura ‘musicale’ che il termine accoglie) che, in crescendo, dal 1966 al 1968, anima alcuni circuiti studenteschi politicamente impegnati (nel nome di Julian Grimau, di Che Guevara, di Ho Ci Min) che, in crescendo, si espandono nelle platee più vaste che scuotono le fondamenta delle università, chiedono d’essere ascoltate e protestano di voler partecipare e ‘manifestarsi’ in forme e modi che esorbitano i tradizionali comportamenti.

Contessa, però, nel subire la metamorfosi che da canzone, su tante bocche e per innumerevoli piazze, l’ha trasformata in inno, perde pressoché tutti i fermenti vivi dell’esser nata appunto, come canzone. E canzone dotta, sottile, nelle parole e nella musica. Nata doppia Contessa, una contaminazione che lo smaliziato Pietrangeli combina facendo seguire all’esordio d’una strofa da operetta, quasi cavatina leziosa («Che roba contessa all’industria di Aldo»), quel poderoso, cadenzato marciante «Compagni dai campi e dalle officine» che riprende ed enfatizza i canti anarchici e socialisti nati ‘sul fosco fin del secolo morente’.

Avviene così che le parole di Contessa sono nei cortei per lo più dette (e intese) alla lettera, per alcuni poi (numerosi e impreparati) quasi nei termini di un programma politico da realizzare seduta stante. La ‘contessa’ non è più un personaggio calato da Cincillà o dal Paese dei campanelli, una figurina da teatrino, ma, niente di meno, è una nemica di classe addirittura, proprio una anziana signora privilegiata, tra crudele e stordita alla notizia che la «gentaglia», nelle occupazioni, «di libero amore facea professione» (aristocratico «facea») e che «anche l’operaio vuole il figlio dottore». E poi quale opportuna conferma in quel «prendete la falce e portate il martello, scendete giù in piazza picchiate con quello».

Quando si dice prendere alla lettera! Anche a Francesco Guccini è capitato di eccepire su Contessa. «Tirare in ballo, argomenta Guccini, contesse in quegli anni era fuori tempo massimo e dipingere quella aristocrazia reazionaria come unico nemico di classe era irrealistico». Stare alla lettera o agire la lettera quale divertimento e rischio dell’intelligenza che crea. Contessa, la celeberrima tra le belle canzoni di Pietrangeli, nel suo sale più fine disattesa.