Le preoccupazioni per Putin non vengono solo dalla crisi siriana e dai complicati rapporti con l’Occidente. Lo stato ancora febbricitante dell’economia e la tenuta sociale della Russia sono da tempo alla sua attenzione e quella di Medvedev.

Non a caso nell’intervista concessa al canale televisivo Mir questa settimana, Putin si è soffermato sulla difficile situazione paese affermando che «le sanzioni hanno giocato un ruolo relativo… ciò che è stato fondamentale è stato il cambiamento di congiuntura nel mercato mondiale».

La dipendenza dell’economia russa dall’andamento dei prezzi del petrolio da cui derivano le forti fibrillazioni del rublo è nota. Quest’anno, dopo due anni di recessione e un calo del Pil del 5%, l’economia dovrebbe crescere del 1,5%.

Tuttavia la ripresa è ancora frenata non solo dalla debolezza del prezzo del greggio ma anche da problemi strutturali: l’imponente corruzione nella pubblica amministrazione e nel sistema sanitario, una fuga di capitali verso i paradisi fiscali che supera i 50 miliardi di dollari l’anno, l’asfittica dinamica della piccola e media impresa, il calo dei salari e dei redditi da lavoro.

L’ex ministro delle finanze Aleksey Kudrin, allontanato nel 2011 proprio per i dissapori con Putin sulle riforme, è arrivato recentemente a sostenere che «siamo a un livello storicamente molto basso di crescita, ancora più basso della stagnazione in epoca sovietica». Affermazione forte, che deve aver fatto fare gli scongiuri alla squadra di governo di Medvedev.

Le riforme rimandate, sin dalla presidenza Medvedev del 2008-2012, al fine di evitare che i fragili equilibri su cui si basa il blocco sociale putiniano si spezzassero, appaiono non più demandabili. E neppure il nazionalismo come strumento di coesione sociale inizia a non funzionare più.

Le manifestazioni organizzate dalle istituzioni dopo l’attentato a San Pietroburgo sono state poco partecipate mentre è cresciuta la richiesta di parte significativa dell’opinione pubblica di bloccare l’immigrazione di forza-lavoro di origine musulmana dal Centro Asia. Allo stesso tempo, si assiste a una ripresa degli scioperi di cui quello combattivo degli autotrasportatori, che dura ormai da settimane, è solo la punta di diamante.

Secondo il Centro per le Riforme Economico e Sociali «nel 2016 ci sono stati in Russia 544 scioperi contro i 263 dell’anno precedente» le cui rivendicazioni erano principalmente salariali.

Il primo serio campanello d’allarme per il governo russo è venuto dalle elezioni per il rinnovo della Duma, dove neppure i partiti di opposizione sono riusciti a intercettare la protesta che si è indirizzata verso un’astensione che ha raggiunto a Mosca, San Pietroburgo e Vladivostok punte del 75%.

In maniera più ridotta si tratta degli stessi malumori e degli stessi mal di pancia che si sono canalizzati nelle manifestazioni dell’opposizione filo-occidentale di Navalny ma che travalicano di gran lunga l’influenza e il peso politico del liberal moscovita.

Il significato politico delle manifestazioni non è sfuggito neppure al Cremlino, che dopo il bastone degli arresti durante i cortei ha mostrato la carota dichiarando «di voler ascoltare la voce dei cittadini insoddisfatti per la crescente corruzione».

Difficilmente nell’anno che separa i russi dalle elezioni presidenziali sorgerà una leadership alternativa in grado di mettere in discussione la rielezione del presidente di Russia Unita.

Resta il fatto che il Putin non potrà più contare su quella straordinaria crescita economica dei primo decennio del Duemila che fu il volano per la sua eccezionale popolarità e per il consolidamento del potere.

Se conosce la storia, lo «zar del Cremlino» sa che anche imperatori russi ben più potenti di lui caddero, giusto cento anni fa.