«I tentativi di Washington di accerchiare la Russia con le sanzioni, stanno riscuotendo spiacevoli insuccessi, soprattutto in Asia»; così Ria Novosti commentava gli accordi sottoscritti a Delhi tra Vladimir Putin e Narendra Modi. Se i contratti conclusi a Pechino erano stati per gli Usa una brutta sorpresa, Delhi è stata ancora più amara. D’altronde, le difficoltà interne (sanzioni, caduta del prezzo del petrolio, svalutazione del rublo) costringono Mosca a cercare nuovi sbocchi ed ecco le due dozzine di accordi con l’India: compagnie indiane lavoreranno con Rosneft e Gazprom all’estrazione di petrolio e gas nell’Artico e Rosneft fornirà all’India 10 milioni di tonnellate di petrolio all’anno per 10 anni. E che l’India non sia più da tempo «dal punto di vista sociale, l’Italia, ma l’Irlanda d’Oriente» – come scriveva Marx 160 anni fa in riferimento alla sua arretratezza – anche a Washington lo sanno bene. Tanto che ieri digrignavano «le aziende indiane hanno firmato contratti con società russe. Continuiamo a sollecitare tutti i paesi a non fare affari con la Russia».

Chissà cosa intendeva allora la Cancelliera tedesca Angela Merkel che in serata augurava «rapporti buoni e strategici con la Russia». Comunque, se nel 2013 l’interscambio tra Russia e India era stato di 10 miliardi di dollari, «riteniamo che ciò sia del tutto insufficiente e bisogna passare più attivamente alle valute nazionali nei pagamenti reciproci» ha detto Putin rivolto al premier Modi. I due leader hanno parlato anche di rapporti speciali tra India e Unione euroasiatica. Ma, soprattutto, mentre prosegue la costruzione della centrale elettronucleare di Kudankulam, si è definita la costruzione di altri 24 blocchi e l’avvio dell’estrazione dell’uranio naturale e la produzione di combustibile nucleare. Accordi su progetti congiunti, anche spaziali e, in particolare, l’India produrrà ed esporterà elicotteri russi Mi-17 e Ka-226 e altri componenti bellici russi.

Intanto in Russia, venerdì sono stati neutralizzati cinque terroristi islamici, che tenevano in ostaggio donne e bambini nel villaggio daghestano di Gurbuki, una cinquantina di km dalla capitale Makachkala. A differenza delle decine di civili uccisi un anno fa a Volgograd da altri attentatori daghestani, il conflitto a fuoco di Gurbuki si è risolto senza vittime, con la resa dei guerriglieri. Lo scorso 4 dicembre, nella confinante Cecenia, dopo la liquidazione dei terroristi islamici che avevano tentato l’assalto a Grozny, erano state rinvenute alcune decine di ordigni esplosivi che avrebbero dovuto essere usati proprio venerdì, festa della Costituzione russa. La Carta in vigore – la prima della Russia; quella del 1977 era stata l’ultima Costituzione sovietica – non brilla per spirito popolare: adottata nel 1993 con i “sì” del 54% dei votanti (33 milioni a favore e 24 contrari, su 107 milioni di aventi diritto: intere repubbliche autonome non avevano partecipato) doveva incensare la vittoria eltsiniana e il suo cannoneggiamento del parlamento nell’ottobre precedente e, come disse all’epoca un esponente del PC russo, «era uno strumento per la trasformazione neocapitalistica del paese».

Ma non è probabilmente contro questa Carta che i raggruppamenti islamici continuano ad attivarsi contro Mosca. Ci sono fondamentalisti ceceni e daghestani tra le file sia dell’Isis, che dei battaglioni neonazisti nel Donbass. E se ci sono singoli ceceni anche tra le milizie della Novorossija, è però alla Rada di Kiev che si esaltano le gesta dei terroristi del Caucaso. Il giorno dopo l’attacco a Grozny, il deputato Igor Mosijchuk (uno dei capi del battaglione “Azov”), declamava che l’Ucraina dovrà stimolare azioni simili, non solo in Cecenia, ma anche in Asia centrale, per aprire più fronti ai confini con la Russia.

E sullo sfondo di 4.634 morti e 10.423 feriti nel Donbass, nei giorni scorsi il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavròv – che incontra oggi a Roma l’omologo statunitense John Kerry – ha parlato di «chances di pace in Ucraina», da ricercarsi nei colloqui di Minsk (rinviati due volte, potrebbero forse tenersi il 19 dicembre) sulla base di un cessate il fuoco che non regge mai più di 24 ore. In ogni caso, Novorossija insiste perché i colloqui si tengano entro fine anno e, come ribadito da Lavròv, secondo il “formato di Minsk” (Russia, Ocse, Ucraina e Repubbliche popolari).