E’ stato Andrea Zanzotto a scrivere che, a partire dalla poesia di Montale – in un mondo da cui gli dèi sono ormai fuggiti – «la storia ben difficilmente (riesce a) conservare il suo senso umano», e si ritrova invece «inevitabilmente (…) a coincidere con la storia naturale». Anzi, con una sorta di degradazione di quella stessa vita umana «al livello della pietra»: in un’inevitabile parificazione fra tutti i componenti del cosmo – vegetali, animali, esseri umani – che ha come effetto anzitutto l’indebolimento dell’io lirico, il suo progressivo allontanamento dal centro della scena (un antecedente stretto, in tal senso, lo si ritrova nella Ginestra leopardiana, e più in generale nell’ultimo Leopardi, nel quale davvero il soggetto è spodestato dal suo trono, ogni antropocentrismo è radicalmente e definitivamente negato). Penso che Fabio Pusterla sia un lettore piuttosto partecipe di quelle pagine montaliane di Zanzotto. O che, in ogni caso, lo stesso modo in cui Zanzotto guardava a Montale ci aiuti a capire meglio la poesia di Pusterla – specie nella sua fase più recente – a disegnarne per così dire una traiettoria in campo lungo. Basterà, per convincersene, aprire la sua ultima raccolta di versi, Cenere, o terra (Marcos y Marcos, pp. 223, € 20,00), e interrogare per esempio la lirica che chiude il volume, in cui lo sguardo di un bambino – Lucio, che dona il titolo alla poesia – è la lente attraverso cui si attua proprio quella parificazione fra elementi, in una dimensione di mite creaturalità che unisce «la cincia sopra il filo, il merlo in volo», e il cielo l’acqua e il fuoco, sostanze che «non sono altro da lui»: «Così lo sguardo fermo / vede e non vede, vita che comincia / nell’unità del tutto e lì si trova / e si perde e gorgheggia, / cieca e fraterna a tutte le altre vite. / Porta ogni cosa in sé, porta anche noi».
Quanto a un io lirico che volentieri «passa la mano», è significativo che addirittura il testo d’esordio del volume sia affidato non a una voce umana, ma a quella di un volatile, nella bella Preghiera della rondine. E intanto è proprio il già citato Zanzotto a comparire all’esordio, perché l’epigrafe del libro – «tra l’incerto oro e il vuoto» – è un verso tolto a una splendida poesia delle IX Ecloghe zanzottiane, Per la finestra nuova. Ma è soprattutto un’analoga inclinazione alla speranza a risuonare, qui, fra questi due poeti (anche se così diversi fra loro). Il verde del grano osservato dalla finestra – scriveva Zanzotto spiegando i propri versi – «è il simbolo più evidente della speranza perché spunta quando tutto sta per crollare». La stessa cifra pur faticosamente positiva – contra spem – appare anche nei versi di Pusterla. Per esempio in una sezione complessa come gli Ultimi cenni del custode delle acque – ambientata nel paesaggio fluviale di Vaprio d’Adda – dove un «anemone di fiume» sopravvive pervicacemente al «flusso»: «L’estrema debolezza / nel cuore della forza. Mite, / un riscatto inutile, / la stella senza colore che resiste. / Quello che ancora insiste / quando tutto è perduto». È ancora più preziosa e coriacea, una tale attitudine al «riscatto», perché convive con la consapevolezza di abitare un tempo cupo: gli Ultimi cenni non solo portano segno della violenza della storia e della complessa armonia fra uomo e natura, ma addirittura antivedono, covano la «sensazione – ha scritto altrove Pusterla, chiosandoli – di qualcosa che sta per arrivare e che sarà devastante». Il che dà luogo a un’inflessione della voce che non sembra la più frequente nella sua poesia: che qui non si volge tanto al passato, come per custodirlo, ma chiama piuttosto a un’attenzione vigile, a un’allerta, nel tentativo di scongiurare magari la «morte / del mondo che abbiamo avuto», avvertita come futuro drammaticamente possibile.
Sul bordo del ghiacciaio
Se si dovesse indicare un punto particolarmente alto, in questo tratto della parabola di Pusterla, forse si potrebbe scegliere Am Gletscherrand (letteralmente: sul bordo del ghiacciaio). Qui l’io lirico è impegnato soprattutto a registrare lo splendore della natura, sia pure quello minimale di «un osso di capra / o di camoscio, fermo sopra la neve», insomma la «profonda / umiltà della cosa che c’è». È, questa, una suite fra le più intense dell’intera raccolta (la quale procede, ancora una volta, per accumulazione più che per costruzione calcolata, e trova nella serialità una delle risorse compositive più sfruttate, insieme alla grande disponibilità metrico-formale, dal testo lungo e narrativo al distico o alle strofe chiuse: Pusterla è, da ogni punto di vista, un poeta accogliente più che selettivo). E nella medesima sezione spicca un altro elemento che ha importanza simbolica larga in questa poesia, la luce: da quella invernale che inaugura il volume alla luce degli astri che rimanda al ricordo del padre (in Costellazione del Cancro), una figura che qui torna a sovraimprimersi all’alveo geologico-naturale, un po’ come in Bocksten (1989: la separazione fra padre e figlio era simboleggiata, lì, dall’inabissarsi dello stretto di Bering).
Tinte fortemente etiche
La luce è ora, fra l’altro, anche nel titolo di un altro libro di Pusterla, Una luce che non si spegne Luoghi, maestri e compagni di via (Casagrande, pp. 247, € 18,00). Non poche pagine di questi saggi e ricordi aiutano a leggere, in controluce, la scrittura poetica dello stesso autore. Un tombeau per Giovanni Orelli per esempio (La fisarmonica del funambolo), si può facilmente accostare a una lirica composta appunto in memoria dello scrittore ticinese (scomparso nel 2016). E se retrocediamo alle prove poetiche precedenti a Cenere, o terra, ci accorgiamo che un testo come Settimana dell’ombra (in Argéman, 2014), dedicato a Sereni, è doppiato da un intervento quale Sulle tracce di Vittorio Sereni: oltre a essere una penetrante lettura critica, il saggio offre parecchi spunti a chi voglia misurare l’importanza di Sereni per la stessa poesia di Pusterla (un poemetto come Un posto di vacanza, segnalato qui come «epicentro» della lirica sereniana, lascia probabilmente la sua impronta nell’ultima maniera del nostro).
In un panorama come quello disegnato, che ha non di rado tinte fortemente etiche o addirittura risentite, la Letteratura non ha certo funzione puramente esteriore, non assolve mai a un ruolo facilmente esornativo o giocoso. Nemmeno quando, mettiamo, la citazione è persino esposta, come nel titolo stesso della raccolta: Cenere, o terra è infatti un sintagma estratto dal Purgatorio dantesco (come dantesco è l’intarsio di cui si compone la Lettera a W. H. Auden, dietro la quale si intravede peraltro – auspice la nota autoriale – un’altra presenza carissima a Pusterla: quella Maria Corti che seguì i suoi studi universitari, e che ebbe parte non trascurabile nell’allestimento del suo libro d’esordio, Concessione all’inverno, nel 1985). A questa patina di cultura la tempra alto-lombarda mette una notevole sordina. Eppure la parola letteraria altrui è non di rado sollecitata: dalla eternità «retrouvée» di Rimbaud alla «libellula» di Gozzano, dai Millimetri di Milo De Angelis indietro fino all’esilio di Ovidio a Tomi, a un «vento dell’Ovest» che sa forse anche di Shelley. Ma non è certo una condizione privilegiata, quella della poesia, se può talora persino pentirsi «d’aver tentato di dire». È anch’essa, invece, «memoria del mondo», strumento per dissodare ciò che è sprofondato, o traccia non troppo diversa dal solco di un fiume. O dall’esistenza di un ghiacciaio: «bianco» come la «pagina» su cui la «parola tracciata (…) non dura ma vive».