La sorpresa, tra le molte che hanno punteggiato la Mostra di Venezia da poco conclusa, è stata lei, Elena Cotta, coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, attrice agli occhi di molti «sconosciuta» invece con un lavoro teatrale di alto talento alle spalle, scoperta a ottant’anni. E l’esperienza si vede tutta: come reggere, infatti, un film intero senza dire una parola, solo con gli occhi e con una trama sensoriale di movimenti che fanno vibrare ogni muscolo, nervo, i capelli, le ciglia, la luce dell’iride in una variazione infinita di emozioni? Il suo personaggio si chiama Samira, anziana donna amareggiata dalla vita, dalla morte di una figlia, dal marito di costei che la tiene in casa ma la tratta peggio di una schiava. E dal famiglione chiassoso, arrogante e maneggione come gli altri che popolano quel vicolo di Palermo dove vivono. Via Castellana Bandiera non è il Gra che corre intorno a Roma, è stretta tanto che due macchine insieme non ci passano, e se uno non cede il senso di marcia non si va più né avanti né indietro. «Hanno ragione tutti» chiosa una donna alzando gli occhi al cielo.

A dire il vero non lo sappiamo se è così, o se invece l’imbuto è uno stato mentale, la proiezione di una tenacia sfinente quanto inutile, nella quale si disegna un sentimento arcaico della terra, dell’appartanenza, e anche una certa Italia passata e presente, di accordi, «grandi coalizioni», trattative stato-mafia sotto banco, rimozioni e risentimenti.
Samira coi suoi occhi chiari sotto una testa bianca scarmigliata e l’abito nero del lutto, è una che non molla. Ma non è disposta a cedere nemmeno la rivale, Rosa, finita per una manovra di rabbiosa distrazione in quella strada dannata, ma che viene da lì, e conosce l’anima di quei luoghi, per questo se ne è scappata. Ce l’ha riportata la compagna, la sua ragazza magra e stralunata coi capelli mezzi biondi e mezzi neri, che disegna fumetti e le ha chiesto, almeno una volta di fare qualcosa per lei. Un gesto d’amore: accompagnarla al matrimonio di una amico nell’odiata città natale. Apriti cielo, finisce che si sono lasciate perché poi l’altra tanta ostinazione non la capisce. E se ne va perciò col ragazzino, l’amato nipote di Samira, in giro a mangiare le panelle. Lui pure è diverso, quando lei gli dice che il suo amore ha le tette e un bel culo, lui dice : «Arrusa sei», e ci fa una risata.
«Nonostante si possa sciogliere l’ingorgo, il comportamento dei personaggi non cambia: per loro la via larga o stretta è la stessa cosa, perché l’ostacolo è nelle loro teste, e il fatto di spostarsi è una questione di principio» dice Emma Dante, che sulla sfida estenuante e dolorosamente surreale ha costruito la sua poetica teatrale. Con la compagnia Sud Costa Occidentale è oggi uno dei nomi più celebrati nelle nuove generazioni teatrali italiane. Scoperta con mPalermu, Premio Ubu nel 2002, in dialetto siciliano strettissimo, e poi Carnezzeria, La scimia, Vita mia, Michelle, Il festino, Le pulle, snodi di una ricerca che che è esplorazione del femminile e e del maschile, in un corpo a corpo ogni volta nuovo.
Per questo film, che rivela un talento folgorante, è tornata ancora una volta nella sua città, nel suono di una lingua, di un conflitto, di una visione del mondo di cui come Rosa, la rivale di Samira (interpretata dalla stessa Dante) conosce i paradossi, l’ orizzontale e il verticale che servono per arrivare nel profondo.
All’origine c’è un libro, che Emma Dante ha scritto qualche anno fa, e che la riporta nella «tradizione» dei film d’automobile. ma Dante sceglie il movimento opposto; si corre da fermi ( non del resto anche la corsa un luogo dell’anima?), Punto contro Multipla, le mani inchiodate sul volante nell’afa appiccicata dell’estate. Palermo è là coi suoi vicoli barocchi, il mare, Villa Igea, il Cimitero dei Rotoli, la Palermo araba di raffinati millenni e i segni devastanti di una speculazione, l’urbanistica mafiosa dei giudici fatti saltare in aria come Falcone e Borsellino …
Le donne stanno lì, le ore passano, e intanto la folla cresce, si fanno scommesse, i maschi dirigono il gioco, le femmine a casa a fare la cena, i pupi e le pance, la sigaretta in bocca davanti ai fornelli. «Perché lo fai?» chiede incredula la sua ragazza (efebica Alba Rohrwacher) a Rosa? Già, perché. Eppure basterebbe un gesto.
Nella dimensione del contrappunto (tra l’altro in quella via la regista ha abitato fino a poco tempo fa), Dante complice il millimetrico montaggio di Benni Atria (anche montatore di Le quattro volte di Frammartino), inchioda le due donne, gli abitacoli stretti delle macchine, il vicolo e il resto del mondo, costruendo un thriller che toglie il respiro. La corsa è al massacro, è inevitabile: tradizione, fondamentalismi, l’universo degli uomini che si ammazzano, si agitano, comandano. E le donne che urlano in silenzio di dolore, ma quando infine nella notte rimangono sole non ci provano nemmeno a riconquistarsi uno spazio di libertà, la rappresentazione simbolica di una prima persona – piacere, sessaulità, gesti – che rompa questo cerchio soffocante. Non mangiano, non bevono e fanno pipì per marcare il territorio. Come i maschi, appunto. L’una rispecchia l’altra, entrambe impotenti alla ribellione, in cerca di un punto di fuga che le «corna dure» non potranno mai dargli.
Samira è la Madre, Rosa è la Figlia, che da sua madre è scappata e dai fantasmi di quel budello di casette ammassate senza orizzonte. Ma fuggire non basta, se non si cambia dentro …
C’è certo l’Italia di oggi in questo film, ma Dante non cade nella retorica dell’attualità, la sua «sfida» vive piuttosto in quello spazio commuovente e duro di un intimità privata. Sono queste madre-figlia, unite dal cordone ombelicale che le lega anche nella distanza, a disegnare il mondo. La Madre e la Figlia, archetipo di una libertà negata che solo una diversa immaginazione si può guarire. A volte basta una retromarcia.