Puntuale come una cambiale è arrivato il nuovo fermo amministrativo della Sea-Watch 3. Alle 10 di domenica mattina l’Ufficio di sanità marittima e di frontiera (Usmaf) di Augusta aveva rilasciato, dopo una quarantena durata 16 giorni, la «libera pratica sanitaria» che autorizzava lo sbarco. Prima che la gru sistemasse il ponte per la discesa a terra, però, sul lato della nave accostato alla banchina sono comparsi due ufficiali della Guardia costiera. Hanno chiesto di salire a bordo per un Port state control, un «controllo dello stato di approdo». Si tratta di ispezioni che verificano il rispetto delle principali convenzioni internazionali del mare da parte delle navi commerciali. Normalmente avvengono a cadenza regolare, calcolata in base ad alcuni parametri di sicurezza, ma dopo l’insediamento del secondo governo Conte sono diventate un appuntamento quasi fisso per le Ong. Soprattutto per quelle che battono bandiera tedesca.

LA GUARDIA COSTIERA afferma che all’origine dell’ispezione straordinaria ci sono due mancate comunicazioni all’arrivo in porto, su sicurezza marittima e conferimento dei rifiuti, un versamento di olio da una gru e soprattutto le operazioni di soccorso, che hanno portato a bordo un numero maggiore di persone rispetto a quello previsto per il solo equipaggio. Il controllo è iniziato alle 10.30 e si è concluso alle 20. Sono state riscontrate 18 irregolarità, di cui 10 ritenute rilevanti per la detenzione. Tra queste: l’aver salvato 363 persone e l’essere impegnata in tale attività in modo sistematico senza la relativa certificazione (che però non esiste né nell’ordinamento tedesco, né in quello italiano); il fatto che nei giorni dei soccorsi l’equipaggio non abbia riposato sufficientemente (ha realizzato sei interventi tra venerdì 26 e domenica 28 febbraio); un tubo di plastica che complicava l’apertura di un’uscita di emergenza della sala macchine (rimesso a posto prima del termine del controllo).

L’ORGANIZZAZIONE non governativa dovrà ora trovare una soluzione alle carenze a cui può rimediare, ma per capire le ragioni del blocco è inutile inseguire i tecnicismi. È lecito dubitare che quando Sea-Watch risolverà queste irregolarità non ne verranno fuori altre. Come successo l’ultima volta: la nave aveva ricevuto un fermo amministrativo a Porto Empedocle l’8 luglio 2020 dopo la precedente missione. Anche in quell’occasione erano state rilevate 18 carenze: tutte risolte tra il porto siciliano e quello spagnolo di Burriana, da dove è potuta salpare dopo il via libera dello stato di bandiera e quello delle autorità spagnole, che il 19 febbraio scorso hanno effettuato un Port state control (durato meno di due ore).

PER LA GUARDIA COSTIERA italiana rimane la mancanza della certificazione Sar da parte dello stato di bandiera. Ma mentre la nave era in navigazione il Tar ha dato ragione alla Ong sospendendo, in attesa del pronunciamento della Corte di giustizia Ue, il fermo della Sea-Watch 4, bloccata con analoghe procedure e motivazioni, e accogliendo la posizione della Sea-Watch 3, già liberata. L’organizzazione contesta il modo in cui l’Italia interpreta i poteri di controllo dello stato di approdo. «La Guardia costiera ha deciso di ignorare completamente la decisione del Tar di Palermo», ha commentato la portavoce di Sea-Watch Giorgia Linardi. Uno dei due ufficiali che hanno condotto l’ispezione è un dirigente del ministero di Infrastrutture e trasporti e ha firmato anche i provvedimenti di fermo amministrativo della Alan Kurdi (di Sea-Eye). Anche questa nave umanitaria batte bandiera tedesca: è stata bloccata la prima volta a Palermo il 5 maggio 2020 e la seconda a Olbia il 9 ottobre dello stesso anno. Da allora non è potuta uscire dal porto sardo.

NEGLI ULTIMI GIORNI in tanti hanno puntato il dito contro la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, accusata di aver bloccato più navi e per più tempo del suo predecessore Matteo Salvini (Lega). Che le silenziose finezze burocratiche abbiano maggiore effetto dei tweet roboanti non ci piove, ma le responsabilità vanno cercate anche altrove. Oltre al Viminale ci sono almeno altri due ministeri coinvolti. Quello della Salute, guidato da Roberto Speranza (LeU), che attraverso gli Usmaf mette in quarantena tutte le navi delle Ong, nonostante adottino protocolli anti Covid-19 e anche quando non ci sono positivi tra equipaggio e persone soccorse (Sea-Watch 3, il 27 febbraio 2020; Open Arms, il 16 febbraio 2021). Una prassi molto diversa da quella applicata alle navi commerciali per cui viene fatta valere l’eccezione riservata dalla legge a «equipaggi e personale viaggiante», anche quando compiono dei salvataggi e alcuni migranti risultano positivi.

C’È POI IL MINISTERO di Infrastrutture e trasporti, da cui dipendono le ispezioni della Guardia costiera. Tra il settembre 2019 e il febbraio 2021, quando sono stati disposti la maggior parte dei fermi amministrativi, era guidato da Paola De Micheli (Pd). Con l’arrivo di Draghi è passato a Enrico Giovannini. L’economista e professore universitario è stato, tra le altre cose, ministro del Lavoro ai tempi dell’esecutivo Letta e membro del direttivo della Ong Save The Children fino all’ultima nomina governativa.

ALLA FINE DELLA GIOSTRA dei procedimenti amministrativi e penali contro chi pratica il soccorso in mare c’è una domanda che rimane sempre inevasa: cosa ne sarebbe stato delle 363 persone salvate dalla Sea-Watch 3? Fuggivano dalla Libia a bordo di gommoni sgonfi o barche di legno cariche all’inverosimile, tra sversamenti di benzina e rischio di ribaltarsi, con poca acqua e senza cibo. Più di un terzo erano appena dei ragazzini. Chi li avrebbe aiutati se la nave umanitaria fosse stata ferma in porto?