Raum in tedesco significa «spazio». E lo «spazio», praticamente in ogni singola valenza di significato che il termine ha in italiano, è sempre stato campo d’azione ed elezione per i Tangerine Dream. Uno slogan pubblicitario, a metà anni ‘70, recitava testuale: «I Tangerine Dream iniziano dove i Pink Floyd finiscono», e la cosa impressionante è che era anche piuttosto veritiera, la formula.

All’opera era un trio, a volte un quartetto che manovrava con abilità diabolica e sognante assieme tastiere analogiche di tutti i tipi, producendo una sorta di «pulsazione cosmica» spesso avventurosa, quasi sempre pendant perfetto per atmosfere anche meditative da gustarsi con profumo d’erba aleggiante. Poi sono arrivati anni di riflusso, troppi impegni per colonne sonore un po’ tirate via, e di rado le «porte del cosmo» di cui cantava Finardi si sono riaperte con dignità e senza cigolii di gelidi cardini digitali.

FINO A QUESTO paradossale momento storico, oggi: dei Tangerine Dream delle origini, mezzo secolo fa, non c’è più nessuno, ma il trio che ne ha ereditato nome e eredità per espressa volontà del fondatore Edgar Froese è quanto di più vicino agli esordi di sempre. Ad esempio: in concerto per circa un’ora i «nuovi» Tangerine Dream con tastiere e violino (la magnifica Hoshiko Yamane) improvvisano totalmente un set.

Quando poi entrano in studio, come per questo Raum, lo fanno con cognizione di causa: ricreando secondo dopo secondo la mercuriale intesa che fece grandi dischi come Phaedra o Ricochet. Spesso lavorando su sequenze di note lasciate da completare e rifinire da Froese stesso. Qui il tour de force arriva con In 256 Zeichen, diciannove minuti di suite allucinata, e con il brano che intitola, quasi un quarto d’ora. Ma l’impressione di salire su una macchina del tempo revisionata a dovere c’è tutta, ed è una bella impressione.