«Nei prossimi giorni non rimarranno armeni nel Nagorno-Karabakh», ha dichiarato il premier armeno, Nikol Pashinyan, ieri. Alla frontiera l’afflusso di mezzi stipati di persone in fuga da Stepanakert e dagli altri centri dell’Artsakh non si è interrotto per un istante e, anzi, si è verificato l’aumento esponenziale previsto a inizio settimana.

Alle 8 del mattino di ieri, e in soli quattro giorni, si è raggiunta la cifra di 65.036 sfollati armeni del Nagorno-Karabakh passati attraverso la frontiera armena. Oltre metà della popolazione dell’enclave indipendentista armena prima dell’ultima offensiva azera.

A KORNIDZOR, il piccolo campo con quattro tendoni della Croce rossa non basta più, il flusso umano ha completamente soverchiato le capacità del centro. Oltre 20mila persone affamate, spaurite e in molti casi bisognose di cure, in sole 24 ore hanno convinto le autorità a rimodulare l’accoglienza.

Ieri al tramonto per la prima volta dall’inizio della crisi si potevano vedere persone camminare sperdute per il centro di Goris, diventato il nuovo punto di primo contatto. «Di cosa avete bisogno di più?», chiediamo a un volontario con la pettorina bianca crociata di rosso. «Tempo. Guardate da soli quanta gente c’è, sappiamo solo che dobbiamo trovare un modo per far mangiare tutti, farli dormire al caldo e farli sentire accolti…sono nostri fratelli e sorelle».

Un ragazzino, forse neanche quattordicenne, ci ascolta con gravità mentre parliamo, alla fine dell’intervista un uomo (forse il padre) richiama l’attenzione del coordinatore dei volontari. Il giovane si nasconde a metà dietro l’uomo, diventa un po’ rosso. «No, sei troppo giovane, non posso farti fare il volontario, dai una mano ai tuoi piuttosto».

A metà giornata le agenzie di tutto il mondo battono un comunicato: «Samvel Shahramanyan, presidente della repubblica non riconosciuta dell’Artsakh, ha firmato un decreto sullo scioglimento dell’entità indipendentista armena della regione».

TUTTI ASPETTAVANO una comunicazione ufficiale, ma il desiderio che nelle trattative in corso con l’Azerbaigian si trovasse una formula che almeno lasciasse aperto uno spiraglio alla più irrazionale speranza non era mai morto. La dichiarazione di Shahramanyan l’ha troncato di netto.

«1) Sciogliere tutte le istituzioni e le organizzazioni statali sotto la loro subordinazione dipartimentale entro il 1° gennaio 2024 e la Repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh) cessa di esistere; 2) La popolazione del Nagorno-Karabakh, compresa quella che si trova al di fuori della Repubblica, dopo l’entrata in vigore del presente Decreto, si familiarizza con le condizioni di reintegrazione presentate dalla Repubblica dell’Azerbaigian, al fine di prendere una decisione indipendente e individuale in futuro sulla possibilità di rimanere (tornare) in Nagorno-Karabakh».

Il comunicato termina con una frase che sembra voler dire «non vi state sbagliando, è finita»: «Il presente decreto entra in vigore subito dopo la pubblicazione».

David scorre con il dito sullo schermo dello smartphone, sta leggendo il testo del comunicato e i commenti di parte armena. «Quindi è ufficiale?», chiediamo. «Da quando abbiamo rifiutato di combattere non c’era altra fine possibile». Poi si ferma, laconico, guarda per terra: «Spero che qualcuno a Erevan sappia cosa stanno facendo…ora restiamo solo noi».

ANCHE LUI, come tantissimi qui, pensa a Syunik, all’eventualità che l’Azerbaigian non si accontenti di aver riconquistato il Nagorno-Karabakh ma attacchi il territorio armeno per aprire il cosiddetto «corridoio di Zangezur» e collegare il grosso del territorio azero con l’exclave del Nakhchivan. Poi mostra un altro messaggio dal telefono: «Il ‘Comitato nazionale’ dell’opposizione ha dato segni di vita. Ha indetto una protesta per il 30 settembre alle 17».

«Parteciperai?». «Alcuni capi di queste manifestazioni sono i vecchi politici corrotti che ritornano, quelli legati a Mosca. Nessuno vuole più Pashinyan, nessuno. Ma al momento non sembra ci sia alcuna figura politica in grado di sostituirlo. Tra gli ultranazionalisti, i filo-russi e chi è solo stanco di tutta questa merda non saprei che dirti». Ma Mosca nella regione è l’unica che può difendervi davvero, obiettiamo. «Si è visto come ci hanno difeso. Russia o Turchia non fa differenza, te lo dico io. Se dovessero attaccarci vorrà dire che si sono messi d’accordo a priori».

INTANTO, DA MOSCA, il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, giudica «estremamente ostile» nei confronti di Mosca «la decisione di Erevan di ratificare lo Statuto di Roma», il trattato sulla Corte penale internazionale (l’istituzione che ha emesso un mandato d’arresto per Putin).

Ma l’Armenia propone un accordo bilaterale alla Russia. Anche perché, come ha ribadito Yeghishe Kirakosyan, rappresentante dell’Armenia per le questioni legali internazionali, «parlare di un possibile arresto del presidente della Federazione russa in caso di una sua visita in Armenia è irragionevole». Ma la diplomazia è in un’altra galassia rispetto a Goris, qui si sa solo una cosa: «Abbiamo perso».