Spesso e volentieri l’alimentazione vegana viene superficialmente etichettata come modaiola ed elitaria, dimenticando le motivazioni etiche, magari non condivise ma sicuramente profonde, che determinano la rinuncia a tutti i prodotti di origine animale, quindi non solo carne e pesce ma anche uova, latticini e miele.

Una scelta che riconosce diritti e dignità anche agli animali, rifiutando di conseguenza la loro uccisione e il loro sfruttamento e che dà forma a quello che può essere considerato per certi versi un movimento che ha anche una data di inizio: 1 novembre 1944, quando Leicester Donald Watson, un professore di inglese, decide di abbandonare la Vegetarian Society con la quale non condivideva più la posizione dei suoi membri nei confronti degli animali, e fonda la cosiddetta Vegan Society. Il nome Vegan viene ottenuto dalla contrazione del termine Vegetarian, del quale sono riprese le prime tre lettere e le ultime due.

IL RIFIUTO DI OGNI FORMA DI CRUDELTÀ e allevamento sugli animali si riflette non solo sulle abitudini alimentari ma anche sulle scelte nel campo dell’abbigliamento, della cosmesi, dell’arredamento, evitando tutti quei prodotti di uso quotidiano che prevedono la sperimentazione sugli animali o comunque il loro maltrattamento.

Non è facile avere contezza della diffusione di questa scelta nel mondo, per la carenza di sondaggi ufficiali, la non sempre chiara distinzione fra vegetarianesimo e veganesimo che porta a risultati contradditori nei dati rilevati, e per il fatto che esistano vegani non per scelta ma per necessità (economiche o religiose ). Ma andando a vedere quello che succede in alcuni singoli stati, si può affermare che il trend vegano è in aumento e sicuramente non trascurabile per le dinamiche economiche ad esso relazionate visto il proliferare di ristoranti vegani e prodotti «cruelty free».

Combinando i dati fra numero di persone vegane rilevate e disponibilità di opzioni vegane nella ristorazione, nei locali e nei negozi, risulta che i paesi più vegan -friendly sono gli Stati Uniti (3% della popolazione), il Canada (2,3 %) l’India (dove i vegani risultano il 27% della popolazione , situazione su cui incide la presenza della religione induista), il Giappone ( 2,7%) e in Europa il Regno Unito (1,6 %) e la Germania (1,6 %).

PER AVERE UN’IDEA DELLA SITUAZIONE ITALIANA si può dare un’occhiata ai dati Eurispes del 2018, sapendo che sono stati ricavati da un campione di popolazione abbastanza esiguo. »uesti indicano che se nel corso dell’ultimo anno sono aumentati i vegetariani, a questo ha corrisposto un calo di quanti si dichiarano vegani, che dal 3% del 2017 sono scesi allo 0,9% nel 2018, ritornando su valori più vicini a quelli degli anni passati (0,6% nel 2014; 0,2% nel 2015 e 1% nel 2016).

L’indagine indica comunque che negli ultimi 5 anni il totale degli italiani che si dichiarano vegetariani o vegani si è mantenuto costante fra il 7 e l’8%. Se ne deduce che in alcuni casi la scelta sia temporanea e che un certo numero di persone alterni un regime e l’altro o ritorni transitoriamente verso un’alimentazione tradizionale. Le oscillazioni fra regime vegetariano e vegano sono dettate anche dalla minore reperibilità dell’opzione vegana, per esempio quando si è in viaggio o sul luogo di lavoro. Sfuggono ancora a indagine i reducetariani, che non escludono completamente il consumo di carne e prodotti animali ma lo ridimensionano in quantità e modalità. Una scelta più alla portata di tutti sempre sulla base del rispetto degli animali e della tutela della propria salute.

Una flessibilità e un’eterogeneità che fa vedere anche come attorno al fenomeno vegan vi sia una moltitudine più ampia e varia di quello che viene invece spesso considerato un manipolo di fanatici, intransigenti, incomprensibili e anche un po’ antipatici per la loro ostentata superiorità morale. C’è chi è vegano, chi lo è stato per un periodo, chi pensa di diventarlo, chi lo è a giorni alterni. Tutti costringono a una riflessione che anche per cattiva coscienza a volte si preferisce evitare o confutare, quando è ormai evidente che il regime alimentare che caratterizza la stragrande maggioranza della popolazione mondiale costringe gli animali ad atroci sofferenze, offre prodotti ben lungi da una qualsiasi naturalità, spreca quantità enormi di risorse e di vite. Un sistema che, anche se può non essere considerato moralmente inaccettabile, è insostenibile dal punto di vista ambientale e pericoloso per la salute.

CIONONOSTANTE ESISTE UN CONSISTENTE FRONTE di contestatori della scelta vegana, che si sforza di dimostrare che in realtà il suo impatto ecologico sia uguale quando non maggiore di quello determinato da abitudine alimentari di consumo non vegane. In Italia è stato accolto con tifo da stadio un articolo di The Vision che fa una serie di esempi volti a illustrare come il supposto aumento di produzione di alcuni alimenti che accompagnano la dieta vegana, ma non solo, starebbe causando l’impoverimento e il cambio di dieta delle popolazioni più povere del mondo, e sia accompagnato da violazione di diritti umani, deforestazione, inquinamento. Come se la causa della sottrazione di terra ed acqua, dello sfruttamento delle persone, della diminuzione della biodiversità e della perdita di sovranità alimentare sofferte in particolare dalle popolazioni del Sud del mondo fosse la quinoa consumata da qualche milione di vegani e non l’insostenibilità dell’agricoltura intensiva globale e delle modalità di vendita e consumo dei suoi prodotti.

LA SOIA È DA SEMPRE IL RE DEI SOSTITUTI dei prodotti animali: da essa si ottengono latte e formaggio (il tofu), salse (tamari), fermentati (il tempeh) , fibre con cui preparare hamburger, polpette, bistecche. È spericolatamente Ogm, monocoltivata a tappeto in tutto il mondo , prodotta in quantità stratosferiche e accompagnata da tonnellate di pesticidi: il bersaglio perfetto per i vegan-detrattori. Peccato che fonti ufficiali indichino che il grosso della produzione di questo legume  (circa il 75%) è usato proprio per gli allevamenti animali e che l’aumento della coltivazione di soia secondo il Wwf va di pari passo con l’aumento demografico e il consumo di carne nei paesi in via di sviluppo.