Il processo di primo grado che vede alla sbarra gli attivisti che si sono opposti alla costruzione del gasdotto Tap si è concluso con una marea di condanne. E’ un’azione giudiziaria massiva quella messa in campo contro le mobilitazioni che hanno attraversato il Salento destinatario suo malgrado dell’approdo della gigantesca infrastruttura energetica destinata a trasportare il gas dall’Azerbaijan all’Europa passando per l’Italia e osteggiata per la sua pericolosità e inutilità; 78 capi di accusa, quasi 100 imputati e 3 distinti procedimenti per reati quali danneggiamenti, resistenze, violazioni di divieti, oltraggi e manifestazioni non autorizzate.

I fatti si riferiscono a quanto avvenuto fra il 2017 e il 2018, quando un malcontento popolare esplose con l’apertura dei cantieri per la costruzione del gasdotto e il trasferimento degli alberi di ulivo. Un evento traumatico per una popolazione abituata a considerare gli ulivi parte del proprio patrimonio storico, culturale ed affettivo, elementi di un paesaggio anche interiore, icone del senso di appartenenza a quella terra. Questo oltre alla consapevolezza, raggiunta grazie al lavoro di ricerca e informazione svolto negli anni precedenti assieme a tecnici ed esperti, della nocività e illegittimità di quell’opera imposta dall’alto con un iter autorizzativo controverso e carente dal punto di vista tecnico.

Le immagini delle campagne salentine piene di polizia in tenuta antisommossa, degli ulivi secolari impacchettati e trasportati come scheletri cupi, di persone anziane, donne, bambini trascinati a terra, dei manganelli sui sindaci in fascia tricolore, avevano fatto il giro del mondo. La successiva militarizzazione del territorio, l’istituzione di zone rosse e la pioggia di corpose multe e fogli di via dettero la misura della volontà di realizzare l’opera ad ogni costo, nonostante gli errori e le forzature denunciate contro Tap, società i cui vertici sono attualmente sotto accusa per disastro ambientale.

Un processo che avanza lentamente mentre quelli contro gli attivisti Tap, che hanno avuto inizio lo scorso settembre nell’area bunker del tribunale di Lecce, procedono a spron battuto: uno tratta diversi episodi riconducibili a manifestazioni pubbliche o blocchi dei mezzi e riguarda 46 persone; un altro imputa a 56 persone la violazione dell’ordinanza prefettizia che delimitava una «zona rossa» attorno al cantiere; il terzo riguarda una manifestazione nei pressi di un altro cantiere, per cui 25 persone sono accusate di aver danneggiato le recinzioni e di aver oltraggiato le forze dell’ordine esibendo il dito medio in direzione di un elicottero in volo. Ad essere condannati soprattutto cittadini e cittadine locali.

Le sentenze del giudice Pietro Baffa, presidente della seconda sezione penale del tribunale di Lecce sono andate ben oltre le richieste dei pubblici ministeri, che in molti casi avevano chiesto l’assoluzione: puniti con 6 mesi di reclusione reati amministrativi che generalmente prevedono l’arresto per un mese e il pagamento di una multa ;in alcuni casi si è arrivati a 3 anni e mezzo di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni e mezzo. Pochissime le assoluzioni. Un accanimento di cui gli avvocati difensori avevano il sentore e che non li fa demordere. «Esistono gli argomenti perché il risultato cambi nei gradi successivi di giudizio» afferma l’avvocato Francesco Calabro, che si dice perplesso per il termine fissato dal giudice per la deposizine delle motivazioni delle sentenze contro cui la difesa ricorrerà in appello. «Fa pensare che 3 sentenze di quella complessità vengano scritte in soli quindici giorni, come se le discussioni precedenti fossero state inutili».

I No Tap preferiscono non commentare a caldo una sentenza che considerano iniqua e ribadiscono la loro intenzione di continuare a fare opposizione a tutto quello che un progetto come il gasdotto Tap significa, che sia nelle aule dei tribunali che si in mezzo alla gente. Gli attivisti infatti continuano a monitorare i cantieri, che sono ancora aperti nonostante l’annuncio di fine lavori e di immissione del gas nelle tubature, a denunciare gli impatti sul territorio e a reclamare un modello energetico slegato dai fossili e più democratico.