In questi primi giorni, l’ombra della tour Eiffel sembra allungarsi sulla via Verdi e bisogna alzare gli occhi per rendersi conto che si tratta invece di quella della Mole. Domenica è stato proiettato 2 automnes 3 hivers di Sébastien Betbeder. Ieri è stata la volta di un film che, uscito da poco in Francia, ha fatto parlare molto di sé: La Bataille de Solferino di Justine Triet. Questi due film hanno in comune il fatto di essere i secondi lungometraggi di due registi diversi ma entrambi rappresentativi di quello che il cinema d’autore francese prepara per il futuro. In comune hanno anche un attore, ancora poco noto in Italia, molto presente nei film della nuova leva: Vincent Macaigne.

Macaigne ha avuto successo a teatro con opere da lui scritte, messe in scena e interpretate, caratterizzate da una tensione tra i personaggi al limite del sopportabile. Il ruolo che ne ha lanciato la carriera sul grande schermo è invece quello un docile trentenne di provincia, il malinconico eroe di Un monde sans femme. Quel personaggio che ricorda i protagonisti di film come Maine océan e Il raggio verde, è sintomatico di un manierismo che anima e ispira oltralpe, dove il nuovo guarda indietro, in particolare a Jacques Rozier e a Eric Rohmer. Non a caso la maggior parte dei giovani registi escono da un’accademia. Betbeder, dalla più classica e blasonata, la scuola nazionale di cinema la Femis. Dalle Beaux Arts arriva invece Justine Triet, e la sua Battaglia porta chiaramente il segno di una filiazione impura: la tradizione del cinema d’autore francese da un lato, la videoarte dall’altro.

La Bataille de Solferino è la cronaca di una giornata particolare. Il 6 maggio del 2012 la Francia sceglie tra Sarkozy e Hollande. Laetitia (Dosch), giornalista inviata al quartier generale dei due opposti schieramenti, si sta preparando per andare a lavorare. La casa è un campo di battaglia. I suoi due figli piccoli si lamentano mentre Virgil (Vernier), avviluppato in una camicia da camera, gioca a fare il padre modello, in realtà è solo un compagno con cui Laetitia ha appena iniziato una relazione. Il vero padre dei bimbi è Vincent (Macaigne), il quale si aggira tra bazar cinesi in cerca di regali. Laetitia ha fretta, prova un vestito, poi un altro. Si accende una sigaretta. Quando arriva il baby sitter? Meglio cambiare vestito. Ecco il babysitter, finalmente. Il biberon è qui, il numero è là e, soprattutto, se suona Vincent, non aprire. Nel frattempo, la Francia ha il fiato sospeso per un’altra battaglia. A Solferino, quartier generale del partito socialista, si attendono i risultati. Laetitia arriva sul posto e si installa con il microfono nel mezzo della piazza stracolma. Dall’altra parte della città, Vincent urla davanti alla porta di Laetitia perché vuole vedere i bambini.

L’idea del film è di mettere di fronte schematicamente quello che di solito si cerca di presentare in maniera più ambigua: il privato e il politico. In questo caso, la vita di Laetitia da un lato, la vita della nazione dall’altro. E opporre le due sfere vuol dire forse metterle sullo stesso piano? La risposta di Justine Triet non è teorica ma artistica, e più che di una risposta si tratta di una proposta cinematografica. La vicenda privata di Laetitia è una finzione classica, dove si racconta un certo modo di essere giovani oggi a Parigi, con i metodi e le strutture del piccolo cinema d’autore. Ad un certo punto la storia incontra un problema pratico, che un film di questa taglia non poteva risolvere con i mezzi della fiction: Laetitia si ritrova, coi suoi problemi, si ritrova nel bel mezzo di una folla di militanti. Per una produzione a alto budget, ricreare quella piazza non è o un problema. Lo è invece per il cinema d’autore indipendente – che quando ha provato a dotarsi delle tecniche del cinema commerciale, come nel caso di Les Derniers jours du monde dei fratelli Larrieux, ha incontrato resistenze invincibili da parte dell’industria.

La Battaglia, prodotto con coraggio dalla piccola ma dinamica Ecce Films, utilizza l’evento stesso, gira tutte le scene di massa in diretta, il giorno 6 maggio 2012, mentre la Storia si sta ancora scrivendo; come se Ettore Scola avesse girato Una giornata particolare il giorno stesso della venuta di Hitler a Roma (dove infatti la sfera privata e quella pubblica restavano isolate, con la sola radio a far da legame). All’opposizione tra privato e politico, che il film incrocia e fa scontrare in via Solferino, se ne sovrappone un’altra, tra quello che il cinema mette in scena e quello che registra in diretta. Quando ha scritto la sceneggiatura, Justine Triet non poteva sapere chi tra i due presidenti avrebbe vinto, ma, scommettendo sulla sconfitta socialista, aveva immaginato Laetitia tra socialisti delusi che invece il 6 maggio 2012, all’annuncio del vincitore, sono esplosi in festa. La cosa interessante è che l’ambiente festivo non ha invertito il senso delle scene scritte ma, per un effetto musicale di contrappunto, ha accentuato la solitudine di Laetitia. Altra cosa che Triet non poteva prevere era la partecipazione dei militanti, i quali parlano, disturbano, abbracciano colei che credono essere una vera inviata, e la proteggono quando Vincent si presenta, urlante.

Così, il film di non è l’ennesimo ibrido tra fiction e documentario. Piuttosto, è un incontro tra la tradizione del cinema scritto, la videoarte, la performance, determinato soprattutto da una riflessione pratica. In Europa, si guarda al sistema francese di finanziamento del cinema, che permette a un’industria importante di esistere, e alla cultura nazionale di resistere. Ovviamente questo sistema ha le sue storture. Una è di coccolare la tendenza naturale del cinema d’autore ad ossificarsi, e a rifugiarsi nella bella sceneggiatura, privilegiando il linguaggio scritto a quello cinematografico. Fortunatamente questa tendenza è talmente forte che, quasi per una legge fisica, finisce per produrre delle «nouvelle vague», come La Battaglia di Solferino.

Con il sudcoreano Bulg-Eun Gajog, aka Red Family, la competizione si internazionalizza, ma non troppo. Il film è scritto e prodotto da Kim Ki-duk, ma il regista coreano Lee Ju Hyoung ha studiato cinema ad Angoulême, e sempre in Francia ha prodotto i suoi primo corti. Red Family è ambientato in Corea del sud dove una famiglia fittizia, composta da agenti infiltrati dal nord, si confronta con una famiglia reale della porta accanto. Piuttosto modesto, il film è interessante come sintomo ma assai meno preciso di una serie televisiva come The Americans, trasmessa dal canale FX, in cui i protagonisti sono due agenti sovietici infiltrati nell’America che ha appena eletto Ronald Regan alla presidenza. Nell’uno e nell’altra si racconta (mutatis mutandis) la stessa cosa. Che cosa? Una sorta di elogio dell’imperfezione occidentale.

L’oggetto di Red Family sembra essere non tanto una critica del socialismo (che nella figura del terzo Kim non è più nemmeno una possibilità reale), quanto piuttosto una redifinizione dell’immagine del mondo occidentale. La famiglia sudcoreana soffre, manca di denaro, è debole, i suoi membri non si rispettano e litigano in continuazione. Ma è proprio questo vivere attraverso la difficoltà che scioglie il cuore della famiglia fittizia e converte gli agenti del nord alla bellezza e all’umanità del vivere occidentale. Come dire: il capitale, in crisi, smette i panni del venditore di sogni e si mette a vendere la crisi stessa come ultima utopia.