La psicoanalisi è minacciata, il suo profilo teorico e la sua efficacia clinica sono screditati, la sua esistenza è «sotto attacco»: puntualmente si rinnova il grido d’allarme che accompagna le sorti sempre incerte e precarie della psicoanalisi, e ogni volta si rinnova la conseguente chiamata alle armi dei suoi sostenitori, costretti a «riaffermarne le ragioni», pronti a «difenderla». Non è forse vero, in fondo, che sin dal suo atto di nascita la psicoanalisi rappresenta un’anomalia, uno scandalo mal tollerato, qualcosa da «correggere», da normalizzare e dunque volentieri da sopprimere? Ultimo, in ordine di tempo, a riproporre la centralità di un simile schema, dopo una recente polemica a mezzo stampa sulla presunta mancanza di statuto scientifico della psicoanalisi, è oggi un inedito «cartello» analitico, sotto il cui vessillo quattro psicoanalisti in rappresentanza delle differenti scuole – due freudiani (Argentieri e Bolognini), un lacaniano (Di Ciaccia) e uno junghiano (Zoja) – hanno deciso di mettere in disparte le rispettive divergenze dottrinali per coalizzarsi dapprima con un «manifesto» comune, poi con un libro, esplicito sin dal titolo: In difesa della psicoanalisi (Einaudi, «Vele», pp. 12, euro 10,00).
Posto, dunque, che quello dell’attacco-difesa sia davvero un dispositivo permanente e irrinunciabile nella rappresentazione che la psicoanalisi dà di se stessa, chi è il nemico attuale della psicoanalisi e qual è l’immagine della psicoanalisi che emergerebbe sotto la pressione di questo ennesimo accerchiamento? Occorrerebbe innanzitutto cominciare a districare quel riferimento all’età della psicoanalisi, quei suoi proverbiali «cento anni» dell’intercalare corrente, presentati tra le righe come un ciclo coerente o un nucleo uniforme cui ricondurre e in cui stabilizzare gli inevitabili mutamenti intervenuti. Anche accettando di ragionare in termini di «storia della psicoanalisi» – cosa per nulla scontata, perché dà ad intendere, senza dirlo, che la psicoanalisi si muova nel tempo come un’entità già configurata, provvista sin dal principio di una sua essenza che si svolge progressivamente – si dovrebbe distinguere, almeno, la fase pionieristica e «pestilenziale» dell’esordio, quella dell’espansione degli anni ’50 e ’60 e quella odierna, non meglio identificata e tuttavia contrassegnata da una serie sparsa di tratti generici ben evidenti e riconosciuti (anche dal «cartello»): la presenza del lessico psicoanalitico nel linguaggio comune, l’uso dei suoi concetti nelle produzioni pubblicitarie, la sua progressiva istituzionalizzazione e burocratizzazione, la sua interconnessione con i settori della psichiatria, della medicina e della psicologia, la moltiplicazione delle scuole, la variegata offerta delle «psicoterapie a orientamento psicoanalitico».

Tutti questi segni aspecifici, il cui elenco potrebbe continuare, sarebbero l’indice di una tendenza da parte della psicoanalisi – già diagnosticata con chiarezza, per esempio, da Fachinelli e da Deleuze verso la metà degli anni ’70 – a infiltrare i pori e le fessure del campo sociale sino a saturarlo. Come una nebulosa in espansione, la psicoanalisi – dopo aver permeato in precedenza la cultura «alta» – avrebbe disseminato, poi, l’atmosfera sociale ordinaria, la cultura sfocata, a bassa frequenza, ovviamente non con il marchio a fuoco dei suoi concetti puri e originari con cui terrebbe il corpo sociale direttamente sotto tiro, ma nel solo modo possibile, cioè attraverso la loro deviazione, il loro snaturamento.

Come definire, allora, la fase attuale se non come quella della sovraesposizione della psicoanalisi, della sua uscita fuori di sé? Dinnanzi a questa inedita e complessa condizione di auto-irretimento – in cui la psicoanalisi tende a coincidere con il contesto sociale, occupando cioè un ‘luogo’ che è sistematicamente al di là del luogo dove essa stessa ritiene di essere, un ‘luogo’ che eccede la sua capacità di riconoscersi – che senso ha correlare gli «attacchi» odierni a quelli degli esordi, come se si trattasse sempre del medesimo, immutato fenomeno di «resistenza» oppostole da un mondo pregiudizialmente ostile, se non allo scopo di recuperare una qualche forma di distanza e sperare di mettere al sicuro il proprio nucleo identitario? Quando, così, i quattro autori del libro-cartello sentono la necessità di tornare all’atto di nascita della psicoanalisi – o delle varie psicoanalisi – e ribadirne i concetti fondamentali, non la «difendono» se non a patto di costruire una psicoanalisi «difesa», sulla difensiva, isolata tanto dal mondo in cui vive quanto da ciò che essa è diventata impregnando il mondo di sé (due facce della stessa medaglia).

In questo senso, decidendo di rispondere all’ultimo «attacco» è come se gli autori del libro-manifesto avessero ingoiato un’esca avvelenata. Cos’è, infatti, questa accusa sulla presunta carenza di scientificità nel trattamento delle sindromi gravi come l’autismo (il casus belli) se non un’ulteriore spinta affinché la psicoanalisi esibisca le proprie credenziali presso l’opinione pubblica presentandosi come una disciplina in possesso di un sapere specialistico, «moderno», competente, coerente, affidabile, in costante aggiornamento sulle recenti scoperte, che si pronuncia con la sicurezza dell’esperto quando è chiamata a dire la sua su questo e su quello, su un caso clinico, sull’ultimo caso di cronaca, su una tendenza sociale insorgente?

Il «cartello» asseconda puntualmente queste richieste e avalla questa «posizione», soddisfatto di poter assegnare alla psicoanalisi un posto d’onore imperituro in seno alla modernità occidentale e alla sua cultura, – cosa indiscutibile; ma gli autori non si accorgono del fatto che, proprio a partire da questa ‘onorificenza’, il loro «cartello» vincola in modo tacito la psicoanalisi a fare blocco con una certa versione, ideologicamente specifica, della modernità, definita su due piedi, per esempio, un «mondo aperto e pluralista», di stampo perciò liberale: il che è doppiamente paradossale, perché un simile intreccio blinda una volta per tutte quel rapporto tra psicoanalisi e modernità fondato invece sull’idea – terribilmente più dinamica e travolgente – di «crisi permanente»; ma soprattutto perché la scena contemporanea è oggi marcata, piuttosto, dal fatto che tale paradigma di «crisi permanente» ha esaurito le sue risorse, raggiunto il proprio limite e toccato il suo punto di rottura, con la conseguenza, tra le molte, che qualunque chiara ripartizione o distinzione è resa impossibile (indecidibile, indiscernibile).

Chi può stabilire oggi dove finisca la «ricerca della scienza» e dove cominci l’«ideologia scientista», dove finisca lo stile occidentale e cominci il «modo di produzione asiatico», l’economia «reale» e la «finanza», lo sguardo «interiore» e quello «rivolto all’esterno», il passo «profondo e ponderato» dell’analista e l’«aria superficiale del tempo», per riprendere alcune distinzioni, date invece per certe dal cartello In difesa della psicoanalisi?

Una duplice operazione sarebbe così al fondo dell’immagine in corso della psicoanalisi: isolare e prelevare una certa fase «sicura» dal ciclo della modernità e proiettarne la figura sullo schermo amorfo rappresentato dalla variante contemporanea di essa, in modo da ri-guadagnare una distanza dal gelatinoso, indecifrabile pulviscolo che la caratterizza. Ma l’esser venuto meno di questa «distanza» è davvero riconducibile, anche per la psicoanalisi, a un incidente di percorso, a un caso reversibile?
A dispetto di qualsiasi accusa, il suo potere d’indagine e la sua capacità conoscitiva si sono rivelati via via incontestabili, tanto che lo stesso «odio» riservatole fu giudicato, già negli anni ’60, da Winnicott una reazione comprensibile rispetto al «bisogno dell’individuo di restare segreto e isolato», e dunque una riprova della sua efficacia.

Partecipe di un processo storico che tra la fine dell’800 e il ’900 è stato concorde, rapido e inarrestabile, lo sguardo psicoanalitico – come la fotografia e il cinema secondo Benjamin – è penetrato nei particolari e nei recessi più intimi delle cose fino a farle esplodere in mille frantumi, tutti a loro volta parimenti significativi; è passato a dare valore agli elementi secondari e trascurati, ai déchets – come certi scrittori della prima metà dell’’800 «a uno stuzzicadenti tutto ingiallito» secondo Auerbach o come Warburg agli accessori, ai capelli o al panneggio del vento – esplicitando, o forse creando addirittura delle «realtà» e una «sensibilità» mai viste prima, come nella migliore fantascienza.

Dopo un corteggiamento e una diffusione così pervasivi, come e dove ripristinare un supposto fronte elementare della realtà, se non in modo arbitrario o per opportunismo tattico? E come far tornare al silenzio, alla profondità, alla misura la miriade di «individui atomizzati e narcisisti» (ormai una categoria morale) che siamo diventati dopo avere profuso nelle più piccole fibre del corpo sociale tanta sollecitazione, tanta stimolazione, tanta elettricità? E una volta sgranate, per così dire, le cose in quote ormai infinitesimali (il nostro pulviscolo contemporaneo, appunto) come non considerare che l’indecidibilità, il sì e il no simultanei che le caratterizza – impressi anche nel ritmo sincopato, convulso e involuto della lingua quotidiana, nonché nel ricorso continuo a paradossi e ossimori del linguaggio specializzato – siano non tanto l’indice di una condizione regressiva a cui il processo di mediazione, rivendicato dalla psicoanalisi classica, dovrebbe sempre di nuovo prestare il suo indispensabile soccorso, quanto l’esito di una mediazione che, raggiungendo il suo limite, avendo già mescolato tutto con tutto, risulta ormai immediatamente «contraddittoria», inservibile, fonte di ulteriore disordine e di equivoci, come certi fenomeni politici e sociali di «crisi della rappresentanza» starebbero a indicare?
Il solo, autentico «nemico» degno di considerazione della psicoanalisi sarebbe così la sua stessa ombra, l’ombra irriconoscibile di ciò che essa è diventata andando fuori di sé grazie alla sua formidabile potenza d’indagine, ombra che contribuisce a infittire l’ombra irriconoscibile della scena contemporanea. Per quanto confusa, inedita, ignota e minacciosa sia questa scena, è soltanto da qui che potrà nascere un’altra immagine, un’immagine nuova della psicoanalisi, che accetti di ricongiungersi all’ombra, in nome – come diceva opportunamente Deleuze – non dello «sviluppo» (basta con ogni forma di «sviluppo»), ma «di quello che è per ciascuno il proprio sottosviluppo, il proprio terzo mondo intimo», grazie a una «capacità di immedesimazione – come sosteneva Fachinelli commentando Rilke – in cui noi feriti, diventeremmo madre di creature ferite».