«Quello del 6 aprile sarà un voto per scegliere fra autoritarismo e democrazia, fra un governo antisociale dei ricchi e una politica più giusta ed equa». Così affermano le forze di centro-sinistra che si oppongono al governo conservatore di Viktor Orbán. Il premier sostiene che in questi ultimi quattro anni l’Ungheria ha portato avanti con successo una lotta contro la burocrazia della Ue e le multinazionali, ma che questa «lotta per la libertà» non è finita.

La campagna elettorale si è svolta in un clima di tensione tra le parti. L’esecutivo sostiene di aver migliorato il tenore di vita degli ungheresi, per l’opposizione, invece, oggi si vive peggio. Un clima elettorale che in fondo è specchio di una società divisa, percorsa da malesseri che si sono manifestati nel modo più evidente ed esplosivo nel 2006, con manifestazioni di protesta contro il governo di allora, una coalizione di centro-sinistra. Motivo della rabbia popolare, la stretta economica dell’esecutivo, ma il disagio continua come le divisioni tra chi sta bene e chi è costretto a fare sacrifici, tra chi sta con il governo conservatore del Fidesz e chi con i socialisti colpevoli, secondo i primi, di aver ingannato e derubato la gente.

Per gli estimatori, il primo ministro ha restituito dignità al paese e migliorato effettivamente il livello di vita dei suoi abitanti. Ha lottato con orgoglio e successo contro l’«arroganza» della Ue che vorrebbe dettar legge in casa degli ungheresi e privare questi ultimi della sovranità nazionale. I conti sembrerebbero dar ragione all’attuale governo dal momento che l’inflazione è diminuita considerevolmente come pure il deficit di bilancio che è sceso al di sotto del 3%. L’esecutivo sottolinea anche di aver rimesso in moto l’economia che l’anno scorso sarebbe cresciuta dell’1,1%. I governanti sostengono di aver aumentato l’occupazione, ma per l’opposizione e per i sindacati le cifre fornite dall’esecutivo sono gonfiate e si riferiscono soprattutto ai lavori di pubblica utilità con i quali quest’ultimo ha cercato di risolvere il problema della disoccupazione. Tutto ciò in un paese che, secondo recenti sondaggi, vede un terzo della sua popolazione in condizioni di povertà.

I sostenitori del governo sono molti e dicono che Orbán li ha liberati dall’affarismo dei socialisti, ha posto fine ad anni di ruberie e di corruzione e agisce per il bene dei suoi connazionali. Gli scontenti, però, non sono pochi. «Mezzo milione di ungheresi ha deciso di lasciare il paese» scriveva l’anno scorso il settimanale di politica ed economia Hvg. Oggi non c’è pieno accordo sulle cifre ma la concretezza di questo fenomeno viene confermata. Secondo fonti locali coloro i quali sono andati via non erano poveri disoccupati provenienti dalle regioni più depresse del paese ma lavoratori specializzati, spesso provvisti di laurea e in grado di parlare almeno una lingua straniera. Austria, Germania e Regno Unito le mete più ambite. Nel suo articolo Hvg aveva descritto un fenomeno migratorio avente tra le sue motivazioni principali la delusione di chi credeva in Orbán o comunque il pieno disaccordo nei confronti della sua politica.

Una politica che ha come suo principale riferimento le classi medio-alte del paese e contraddistinta per iniziative criticate anche all’estero. Tra esse l’approvazione di una legge sulla stampa, la «legge bavaglio» che per l’opposizione ha creato un sistema centralizzato che consente al governo di controllare l’informazione, un nuovo Codice del Lavoro che riduce i diritti dei lavoratori, soprattutto di quelli della pubblica amministrazione, e restringe ulteriormente il già angusto spazio di manovra dei sindacati, e gli emendamenti alla nuova Costituzione di carattere nazionalista e autoritario, approvati nel marzo dell’anno scorso. Tali modifiche hanno, tra l’altro, depotenziato la Corte costituzionale, ridotto l’autonomia delle università e vietato ai senzatetto di occupare luoghi pubblici. Quest’ultima è diventata legge lo scorso ottobre tra le proteste delle organizzazioni attive in questo ambito e dell’opposizione di centro-sinistra secondo la quale la povertà estrema è un problema molto complesso che non si può risolvere con la repressione.

Zoltán Aknai, direttore della Fondazione Menhely che aiuta i senzatetto, sostiene che c’è stato modo di mettersi d’accordo con la polizia per gestire il problema in modo più umano, resta però la critica ai principi che ispirano questa legge. Nel maggio dell’anno scorso Human Rights Watch ha diffuso un dossier che dipinge a fosche tinte lo stato del diritto nell’Ungheria di Orbán e che esorta Budapest a cambiare politica e le principali organizzazioni europee a fare pressione sull’Ungheria per l’adozione di orientamenti più democratici e rispettosi dei diritti umani e sociali. Divenendo primo ministro per la seconda volta, fatto avvenuto nel 2010, Orbán aveva parlato di «sistema della cooperazione nazionale», chi collabora è dentro il sistema, chi non lo fa ne è fuori.

[do action=”quote” autore=”il leader socialista Attila Mesterházy”]«Con questo voto dovremo scegliere fra Est e Ovest, fra Mosca e Bruxelles»[/do]

«Con questo voto dovremo scegliere fra Est e Ovest, fra Mosca e Bruxelles», ha detto il leader socialista Attila Mesterházy. C’è evidentemente in questa frase un riferimento all’accordo ungaro-russo firmato all’inizio dell’anno a Mosca per la realizzazione, da parte russa, di due reattori nucleari che verranno aggiunti ai 4 già in funzione nella centrale nucleare di Paks, situata a un centinaio di chilometri a sud di Budapest. L’accordo è stato criticato dai socialisti che accusano Orbán di non aver dato luogo a un dibattito e di aver svenduto gli interessi nazionali rendendo l’Ungheria ancora più dipendente dalla Russia in ambito energetico.