Silvio ci prova. Dopo aver fatto circolare per giorni la sua idea, la ufficializza: «Se non potrò tornare in campo io, il centrodestra dovrà trovare qualcuno al suo interno. Io dico Zaia. Oppure qualcun altro in grado di emergere e convincere tutti». La risposta di Salvini arriva a stretto giro: «Se qualcuno pensa di mettere zizzania facendo nomi ha sbagliato a capire. Noi siamo una squadra». Ma il leader leghista non si accontenta del suo stesso diniego. Vuole che a chiudere i giochi sia lo stesso Zaia, e il governatore del Veneto non si fa pregare: «Basta manfrine. Noi della Lega un candidato già ce l’abbiamo ed è Salvini. Apprezzo la stima però questa storia sta penalizzando i veneti perché quando si va a trattare qualcosa la sensazione è che ci sia un retropensiero. Lasciatemi governare in pace».

Sembrerebbe partita chiusa alla prima mano, ma probabilmente non è così. Berlusconi non s’illudeva di trovare Salvini disponibile, calcolava anzi che il lombardo avrebbe comunque rilanciato con le primarie e che a quel punto Zaia, che è un tipo accorto, non avrebbe accettato di correre contro il suo leader. Ma quella di ieri, in realtà, non è che una mossa iniziale, un modo scelto a freddo per mettere in campo un’ipotesi. Per il resto ci vorrà tempo e soprattutto sarà necessario vedere come si metteranno le cose, il quadro essendo ancora del tutto indefinito.
Manca il tassello fondamentale, la legge elettorale, senza la quale ogni discorso è chiacchiera oppure, come in questo caso, primissimo approccio. Per Berlusconi il punto di caduta a cui tendere è chiaro. Vuole prima di tutto la conservazione dei capilista bloccati e Renzi concorda. Vuole alzare la soglia di sbarramento con una media tra l’attuale 3% della Camera e l’8% del Senato: il 5% in entrambe le Camere toglierebbe ai frammenti dell’ex centrodestra, da Fitto a Alfano, ogni velleità di corsa solitaria. Anche su questo punto l’ex socio del Nazareno è pronto alla ratifica, tanto più che nel suo elenco delle priorità è spuntata la voglia matta di punire i ribelli. Ma qui il problema saranno i partiti minori che, per piccoli che siano, hanno in mano la chiave della maggioranza.

Infine, e anzi soprattutto, Berlusconi vuole il passaggio dal premio di lista a quello di coalizione per costringere Salvini all’accordo e forse ad accettare Zaia. Per ora l’ex cavaliere getta le basi di un possibile accordo con la proposta di una doppia moneta, l’euro affiancato da una moneta a uso interno, che potrebbe risolvere il punto più dolente per una eventuale coalizione Fi-Lega.

In materia lui e Renzi la pensavano all’opposto, essendo il leader del Pd deciso a difendere un premio di lista infinitamente più consono alla sua idea di partito a vocazione maggioritaria. Ma nel week end uno spiraglio si sarebbe aperto. Perché l’accoppiata tra soglia di sbarramento alta e premio di coalizione finirebbe per rivitalizzare il voto utile, e rapresenterebbe quindi una tagliola potenzialmente micidiale contro gli scissionisti. Poi, o forse sopratutto, perché Renzi non ha affatto digerito l’idea di arrivare sino alla scadenza della legislatura.

L’ex premier continua a voler votare il prima possibile e per questo conta sull’incidente parlamentare che a suo parere l’eterogenietà della maggioranza rende quasi inevitabile. Le cose potrebbero precipitare sulla legge sulla cittadinanza e lo ius soli, e non è certo per caso se Orfini parla di mettere la fiducia su un provvedimento che per i centristi è quasi invotabile. Potrebbe succedere sui voucher, se il governo tentasse di evitare il referendum con una legge posticcia che né la Cgil né gli scissionisti di Dp potrebbero votare. Potrebbe succedere, e i suoi consiglieri sono anzi certi che succederà, nel votosul Def.

Però potrebbe anche non succedere, perché il governo, contrariamente alle attese del detronizzato, non sembra disposto a lasciar correre le cose verso l’abisso senza adoperarsi per impedirlo. Un accordo con Berlusconi basato sullo scambio tra coalizione ed elezioni potrebbe essere provvidenziale. Ma nonostante la tentazione, Renzi esita a sacrificare quel premio di lista che è il cuore della sua politica.