«A volte, ed è il caso più semplice, la prima persona singolare sembra affiorare nell’ombra di Jean e assumere il ruolo di un narratore testimone, che si intromette nella narrazione e finisce per prevaricare, per sostituirsi al protagonista e per aprire alle sue spalle un dialogo con il lettore». Quest’asserzione di Mario Lavagetto, riguardante lo slittamento che fa approdare, alla stregua di un lapsus narrativo, la descrizione del protagonista dalla terza persona singolare alla prima, potrebbe idealmente introdurre la nuova traduzione del Jean Santeuil di Marcel Proust (Edizioni Theoria, pp. XXVI-806, € 20,00), effettuata con eleganza da Salvatore Santorelli. Si tratta della prima versione dopo quella «storica» allestita da Fortini per Einaudi nel 1953 e riveduta dallo stesso Fortini nel ’76 in base alla lezione critica stabilita nel ’71 da Pierre Clarac per Gallimard. Si è ripristinato «l’arbitrario ordine strutturale e di capitolazione» che figurava nell’edizione originale francese, con l’obiettivo di favorire una maggiore fruibilità del testo, a scapito di una fedeltà filologica che non poteva che essere approssimativa, considerata la frammentarietà del progetto proustiano.
Ritrovato in un armadio
E, in effetti, questo romanzo-fiume, composto tra il 1895 e il 1902, il cui manoscritto fu ritrovato in un armadio da Bernard de Fallois e pubblicato in tre volumi da Gallimard con prefazione di André Maurois nel ’52, trent’anni dopo la scomparsa di Proust, si configura come una sorta di laboratorio della Recherche o, per usare le parole di Gianfranco Contini, il «cartone» preparatorio della stessa. Numerosi sono infatti i motivi adombrati in questo romanzo giovanile e l’opera maggiore, testimoniati a più riprese dalle corrispondenze che si impongono alla memoria del lettore come felici epifanie: dal bacio materno della buonanotte senza il quale il protagonista bambino non riesce ad addormentarsi («Quella buonanotte a letto era il dono atteso con febbrile impazienza, il cui meraviglioso potere rasserenava come un incantesimo») al tema della gelosia che cadenza le vicissitudini della Prigioniera, dallo snobismo vissuto come rutilante alternarsi di convenzioni ora garbate ora patetiche all’uso dei nomi che ritroveremo nella Recherche, come Bergotte, scrittore anziché pittore. Infine la telefonata alla madre che prefigura quella alla nonna nei Guermantes e la petite phrase musicale della «sonata di Vinteuil»: «Aveva riconosciuto quella frase della sonata di Saint-Saëns che ai tempi della loro felicità le chiedeva quasi ogni sera e che lei gli suonava in continuazione, dieci volte, venti volte di seguito». D’altronde bisogna ricordare come il celeberrimo episodio delle madeleines fosse stato anticipato nel Contre Sainte-Beuve.
Scrisse Giacomo Debenedetti che «quando Proust, nella Ricerca, farà parlare il suo protagonista in prima persona, avrà molto maggiore possibilità di distacco, e libertà d’invenzione. Accollandosi la diretta responsabilità di ciò che succede, potrà crearsi il margine di finzione, indispensabile per dire tutta la verità. Jean è una creazione della timidezza di Marcel; ma è una timida creazione. Invece di sentirsene protetto e reso più audace, Marcel sconta, con quel suo Jean, l’iniziale mancanza di coraggio, che gli ha impedito di dire io». Osserva Andrea Caterini nella sua introduzione: «Jean Santeuil è narrato in una terza persona che fa di tutto per diventare una prima. Lo si comprende dal ruolo predominante che assume il narratore, il quale è tutt’altro che acritico; piuttosto legge la vita del proprio personaggio come ne giudicasse ogni atto, ogni comportamento; come il suo personaggio fosse un modello umano dal quale ricavare un significato universale, una filosofia (pure poetica, voglio dire percettiva). Quella terza persona non doveva piacere a Proust, forse perché aveva compreso che, pur ponendo una distanza oggettiva tra personaggio e narratore, aveva causato al contempo una discrepanza di significati; quasi che la vita – la vita di Proust – fosse divenuta appena una somma di esperienze».
Ma, al di là delle elucubrazioni concernenti i pronomi personali, la composizione del Jean Santeuil, per quanto abortita (ma la materia non appare abbozzata, bensì a tratti delicatamente cesellata), costituisce, a differenza di altre prove giovanili ancora acerbe (si pensi a I piaceri e i giorni e a certe «cronache mondane» contrassegnate dal ricorso al pastiche), come un lavoro godibile e ricco di implicazioni intertestuali. Certe pagine sull’adolescenza o sul fascino esercitato da un carosello di personaggi minori si incidono nella memoria con la sottigliezza di un taglio di bisturi. Il motivo conclamato dell’autobiografismo, avallato da quella «memoria involontaria» che avrà nella Recherche un posto preponderante, non può inficiare la freschezza di episodi che ci riconducono alla giovinezza e all’ambiente frequentato dall’autore, in virtù di quel senso della scoperta di cui è pervasa, se pur frammentariamente, ogni pagina del romanzo. George D. Painter, nella sua biografia proustiana, scrisse, riguardo a certe incongruenze di stampo cronologico e strutturale (si confronti l’episodio riguardante la sfida a duello tra il protagonista e il signor Saylor che non avrà adeguato seguito): «Tuttavia le imperfezioni di Jean Santeuil non vanno esagerate. Il romanzo è un frammento fatto di frammenti, una sorta di puzzle in cui molti pezzi mancano o si rifiutano di inserirsi al loro posto; ma un altro anno di lavoro sarebbe bastato per fondere gli episodi in un tutto organico (…). Un Jean Santeuil riveduto sarebbe stato – per il tema, per lo stile, per la freschezza – qualcosa di nuovo e sorprendente per la letteratura francese, eppure non troppo nuovo, non troppo lontano da France e Barrès perché il pubblico potesse accettarlo e digerirlo».
Frase contorta come i tralci della vite
La frase peculiare che contrassegna tante pagine della Recherche, avvolgente a spirale nella sua complessità, allungata a dismisura, contorta come i tralci di una vite, ma che, al tempo stesso, si dispiega in una sua innata eleganza come il motivo di quegli stessi tralci di vite in un capitello romanico; quella frase che molti critici hanno messo in relazione con l’asma di cui soffriva Proust, sembra qui trovare una versione primigenia, niente affatto peregrina. Lo scarto che darà la consapevolezza necessaria ad affrontare l’architettura spropositata della Recherche è costituito dalla cognizione, in parte ereditata da Bergson, del tempo. Painter nota che, all’epoca di Jean Santeuil, Proust «non poteva ritrovare il Tempo perché non lo aveva ancora perduto».
La stessa adesione alla realtà storica e politica descritta in Jean Santeuil (si vedano le pagine dedicate all’affaire Dreyfus) è vissuta come il tentativo quasi puerile di arginare i danni causati da quel tempo di cui l’autore non ha ancora adeguata nozione, sottomettendosi alla sua apparenza e alle relative deformazioni cronachistiche. Proust ricorre al sotterfugio, teso presumibilmente a mascherare l’intento autobiografico, di presentare nella sua introduzione il romanzo come frutto del lavoro di C., «scrittore che alcuni miei amici e io stesso reputavamo il migliore fra quelli in vita», espediente che gli consente di camuffarsi dietro due alter ego: C. e il narratore dell’introduzione. Aggiunge inoltre, per depistare ancor più il lettore, di non sapere quanto la figura di C. possa identificarsi con quella di Jean Santeuil. Fu Proust stesso ad accorgersi che l’artificio dell’introduzione, così avulso rispetto alla trama del libro, era «insufficiente a riscattarne il carattere complessivo, che era quello di una grezza trascrizione dell’esperienza vissuta», come ricorda Mariolina Bongiovanni Bertini. Non è un caso che Walter Benjamin si chiedesse: «La “memoria involontaria” di Proust non è forse assai più vicina all’oblio rispetto a ciò che chiamiamo comunemente ricordo?».