Sono gli eroi del nostro pianeta: difendono le foreste, le acque, la biodiversità dalle mani rapaci di imprese locali e straniere e più in generale da quel processo di appropriazione violenta dei beni comuni noto come modello estrattivista. I loro nomi sono spesso sconosciuti, ma almeno di tre di loro ci ha narrato la storia il peruviano Joseph Zárate, uno dei più importanti esponenti del giornalismo narrativo in lingua spagnola, nel libro Guerre interne, edito da gran vía (pp. 156, euro 15): tutti e tre abitanti di quel Perù tanto poco ospitale per i difensori dell’ambiente quanto generoso con le imprese minerarie, a cui di fatto è stato ceduto oltre il 20% del territorio nazionale.

TRE RITRATTI attraverso cui Zárate fa suo il compito di «rimpicciolire la storia fino a farle assumere una dimensione umana», come dice Svetlana Aleksievic nell’epigrafe che apre il volume. E lo fa con respiro poetico e forza narrativa, e senza perdere nulla del quadro generale di quella che Raúl Zibechi ha definito come «società estrattivista», quella plasmata da un’economia di conquista, furto e saccheggio, di mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza.
Tre ritratti legati ad altrettanti elementi di questo processo di rapina – legno, oro e petrolio – e alle corrispondenti lotte per contrastarlo.

COME QUELLA CONTRO il disboscamento illegale presso la comunità amazzonica di Saweto che il leader asháninka Edwin Chota, noto come il Chico Mendes del Perù, ha portato avanti fino a quando, nel 2014, non è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da trafficanti di legname insieme ad altri tre dirigenti indigeni. 53 anni e «magro come un ramo secco», con il suo sorriso «largo, esagerato, contagioso» in cui risaltava lo spazio vuoto dovuto alla perdita di un dente davanti, Edwin Chota non era nato asháninka: ci era diventato in seguito, quando aveva abbracciato la causa di un popolo che non era suo. Da allora, nel tentativo di proteggere la foresta, aveva denunciato ripetutamente i gruppi di taglialegna illegali, ma senza successo.

«Nessuna delle denunce di Edwin contro questi figli di puttana è andata a buon fine. Nemmeno una», avrebbe dichiarato dopo la sua morte un amico. Ma Edwin sapeva bene a cosa andava incontro: «Combatterò in prima linea per la mia comunità. Forse qualcuno deve morire perché si accorgano di noi».

È L’ORO INVECE A SEGNARE l’esistenza di Máxima Acuña, il cui appezzamento di terra a Tragadero Grande, tra le montagne della regione di Cajamarca, diventa di ostacolo ai piani della compagnia mineraria Yanacocha, di proprietà della statunitense Newmont mining corporation, decisa ad ampliare l’area di sfruttamento della locale miniera d’oro a cielo aperto, la più grande dell’America Latina. Sotto il suo terreno, di fronte a uno dei quattro laghi di montagna, la Laguna Azul, che andrebbero distrutti con il progetto minerario, c’è l’oro a cui mira la Yanacocha, ma Máxima non vuole cederlo a nessun prezzo. E, in una rivisitazione andina del mito di Davide contro Golia, la comunera analfabeta alta nemmeno un metro e mezzo riesce ad avere la meglio, malgrado pressioni, persecuzioni e calunnie di ogni tipo, sulla potente impresa mineraria.

È INFINE IL PETROLIO al centro dell’ultima storia raccontata da Zárate, quella dell’undicenne awajún Osman Cuñachí, diventato famoso grazie a una foto che lo ritrae sporco di petrolio dopo aver raccolto il greggio fuoriuscito da una conduttura dell’Oleodotto Nordperuviano nel 2016, nella poverissima regione di Amazonas.

Da allora, nel suo organismo e in quello degli altri bambini usati dalla Petroperú per ripulire il fiume in cui la sua etnia ha da sempre nuotato e pescato, sono presenti cadmio, piombo, arsenico e mercurio e Osman, come gli altri, potrebbe accusare danni al sistema nervoso, difficoltà di apprendimento, ipertensione, insufficienza renale e persino ammalarsi di cancro una volta raggiunta l’età adulta. «Se ho una malattia e muoio, be’, allora muoio», afferma sorridendo Osman, «prima di andare a giocare con i suoi amici».